LA DATA

11 novembre 2006

Federico Aldrovandi come Stefano Cucchi, come Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Riccardo Magherini, morti per un brutale pestaggio “di stato”, subito da parte delle forze dell’ordine, per omissione di soccorso, per un colpo sparato dalla pistola di ordinanza. Riccardo Rasman, Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi hanno ottenuto giustizia, altri ancora attendono e forse non l’avranno mai. Nei casi di Stefano e Federico solo la tenacia delle famiglie, che hanno tenuto alta l’attenzione mediatica sulla tragica fine dei propri cari, ha permesso di arrivare a una sentenza che in parte restituisce senso al loro dolore.

L’11 novembre 2006, l’Istituto di Medicina legale di Torino deposita i risultati della perizia effettuata sul corpo di Federico Aldrovandi. La terza, quella super partes, che doveva “mettere d’accordo” l’esame scientifico commissionato dal pm, secondo il quale Federico è morto per «insufficienza miocardica contrattile acuta dovuta all’aumentata richiesta di ossigeno indotta dallo stress psico-fisico per la marcata agitazione psico-motoria e gli sforzi intensi posti in essere dal soggetto durante la colluttazione e per resistere alla immobilizzazione, all’ipotetica depressione respiratoria secondaria alla assunzione di oppiacei e alle turbe della ventilazione polmonare prodotte dalla restrizione fisica in posizione prona con le mani ammanettate dietro la schiena», e quella della famiglia, che attribuisce la causa della morte allo schiacciamento del torace. Anche i medici legali di Torino, l’11 novembre 2006, arrivano alla stessa conclusione ed escludono il nesso tra le sostanze psicotrope assunte dal ragazzo nel corso della serata e la sua morte.

È il momento della svolta nell’inchiesta. Nel frattempo, sul “caso Aldrovandi” si era alzata l’attenzione della stampa nazionale, grazie al blog aperto dalla madre, Patrizia Moretti, il 2 gennaio del 2006, per far conoscere a tutti la storia del figlio, sulla quale era stata fatta anche un’interrogazione all’allora ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi. Dopo un lungo processo durato sei anni, nel 2012, la Cassazione ha condannato i poliziotti Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri, a tre anni e mezzo di carcere, rilevando nel loro comportamento «l’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi». Grazie all’indulto, in realtà, hanno scontato solo sei mesi e, nel 2014, sono stati riammessi in servizio con funzioni amministrative.

Intanto, la verità “artistica” era già stata scritta, nel 2010, con il film di Filippo Vendemmiati, È stato morto un ragazzo  (il link in fondo alla pagina), premiato con il David di Donatello per miglior documentario. Purtroppo la fine delle vicende giudiziarie, sia il filone principale che le altre inchieste (tra cui quella per depistaggio e varie querele incrociate), non è stata sufficiente per rimarginare il dolore della famiglia: il ritorno in servizio dei quattro agenti, la reazione delle forze dell’ordine per l’esito della sentenza, gli strascichi mediatici tengono in vita una storia drammatica che per loro non si chiuderà mai.

Federico Aldrovandi aveva 18 anni quando la notte del 25 settembre 2006, dopo una serata passata con gli amici al Link, un centro sociale di Bologna, venne fermato da una volante nei pressi di via dell’Ippodromo a Ferrara. Il ragazzo aveva assunto modeste quantità di alcol e droga, «ma era lucido e stava bene», diranno gli amici. Durante l’inchiesta, i poliziotti raccontarono che era «invasato violento in evidente stato di agitazione» e che li aveva aggrediti. Ma lui è uno e loro sono in quattro, perché nel frattempo è sopraggiunta una seconda pattuglia in appoggio alla prima. Il pestaggio è di una brutalità inaudita: sul suo corpo martoriato verranno riscontrate 54 ecchimosi e lesioni, due manganelli vengono spezzati su Federico, ammanettato e con le braccia legate dietro alla schiena, trascinato sulle ginocchia. Gridava «aiuto! Muoio!» mentre i poliziotti continuavano ad infierire su di lui a calci e manganellate, come racconterà agli inquirenti l’unica testimone oculare del pestaggio.

Poco credibile il malore che i poliziotti preannunciarono ai medici del 118. Federico è morto, le braccia dietro alla schiena e il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti, quando arriva l’ambulanza. La famiglia viene avvisata solo 5 ore dopo la dichiarazione del decesso.

«Il secondo processo, Aldrovandi bis, per diversi reati tra cui falso, omissione e mancata trasmissione di atti, si chiuderà nel marzo del 2010 – si legge sul sito “Osservatorio repressione” – con la condanna di altri tre poliziotti per depistaggio. Paolo Marino, dirigente dell’Upg all’epoca, a un anno di reclusione per omissione di atti d’ufficio, per aver indotto in errore il PM di turno, non facendola intervenire sul posto. Marcello Bulgarelli, responsabile della centrale operativa, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento. Marco Pirani, ispettore di polizia giudiziaria, a otto mesi per non aver trasmesso, se non dopo diversi mesi, il brogliaccio degli interventi di quella mattina».

La memoria di Federico è tenuta viva da diverse iniziative, come il comitato Verità per Aldro, fondato nel 2006 e  la onlus Federico Aldrovandi che, si legge sul sito, «ha lo scopo di sensibilizzare e promuovere l’informazione sugli abusi di potere delle forze dell’ordine e di qualunque soggetto in posizione dominante». Non solo. È anche quella che, ogni anno, in occasione dell’anniversario della morte del giovane, organizza iniziative per ricordare ciò che è accaduto il 25 settembre del 2005 in via Ippodromo a Ferrara.