IL NUMERO

13.000.000

Tante furono le donne che, a fronte di 12 milioni di uomini, andarono per la prima volta alle urne il 2 giugno 1946 dopo che, con l’Italia ancora divisa e il Nord sottoposto all’occupazione tedesca, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò il 31 gennaio del 1945, un decreto che riconosceva loro il diritto di voto. Venne così riconosciuto il suffragio universale, dopo i vani tentativi fatti nel lontano 1881 e nel 1907 dalle donne dei vari partiti.

Se si giunse a questo risultato fu perché nel novembre 1943 venne fondata a Milano un’organizzazione costituita da donne che si univano per manifestare contro la guerra, assistere famiglie in difficoltà, supportare i partigiani: i Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Volontari della Libertà. Questi nel luglio 1944 furono riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia e nello stesso anno iniziarono le pubblicazioni del periodico “Noi Donne”.

La questione dell’estensione del suffragio anche alle donne posta dai Gruppi di Difesa della Donna fu accolta nell’agosto 1944 dai partiti capeggiati da Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana) e Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e così prese forma il decreto De Gasperi-Togliatti, meglio conosciuto come decreto Bonomi.

Al referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946, indetto per determinare la forma di governo da dare all’Italia dopo la seconda guerra mondiale, da cui nacque la Repubblica Italiana, presero parte le donne per la prima volta in una consultazione politica nazionale: i risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946: 12.717.923 cittadini favorevoli alla repubblica e 10.719.284 cittadini favorevoli alla monarchia. Risultarono votanti circa 13 milioni di donne e circa 12 milioni di uomini, pari complessivamente all’89,08% degli allora 28.005.449 aventi diritto al voto.

Il 2 giugno 1946 il “Corriere della Sera” pubblicava tra gli altri un articolo intitolato Senza rossetto nella cabina elettorale, sostenendo: «Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio».

La storia del suffragio femminile in Italia ha origine nell’Ottocento e assume due forme: voto amministrativo e voto politico. Nel 1928, va ricordato, ci fu la cancellazione totale del diritto di voto, tanto per i maschi quanto per le femmine.

Prima dell’unità d’Italia

In Lombardia, che era sotto dominazione austriaca, le donne benestanti e amministratrici dei loro beni potevano esprimere una loro preferenza elettorale a livello locale attraverso un tutore e in alcuni comuni potevano essere elette.

In Toscana e in Veneto le donne partecipavano alle elezioni di politica locale ma non potevano essere elette. In Toscana un decreto datato 20 novembre 1849 sanciva il diritto di voto amministrativo per le donne attraverso una procura e dal 1850 anche tramite una scheda inviata al seggio con una busta sigillata.

In occasione del plebiscito del Veneto del 1866, seppur non previsto, anche le donne vollero esprimere il proprio sostegno all’unità d’Italia e per questo inviarono diverse lettere di protesta a re Vittorio Emanuele II, mentre a Mantova vennero raccolte in urne separate circa 2.000 schede. Nella stampa dell’epoca venne sottolineato il carattere patriottico di questa partecipazione, trascurando gli accenni di protesta (l’amarezza e l’umiliazione) e di rivendicazione del diritto di voto.

Dal 1861 alla fine dell’Ottocento

Con l’avvento dell’Unità i diritti di voto garantiti localmente vennero meno e si diede per scontata l’esclusione delle donne dalla vita politica dettata dalle tradizioni. La formula «i cittadini dello Stato» che si legge nei decreti e nelle leggi dell’Italia unita si riferiva per tacito accordo ai soli uomini. Il Regno d’Italia ignorava la parte femminile che lo costituiva: per questo motivo nel 1861 le donne lombarde, definendosi con audacia “cittadine italiane”, portarono alla Camera una petizione nella quale rivendicavano il diritto di voto che era in loro possesso prima dell’Unità e chiedevano che venisse esteso a tutto il paese.

Furono numerosi i tentativi di ammettere le donne al voto amministrativo immediatamente dopo l’Unità d’Italia: ci furono i disegni di legge Minghetti, Ricasoli (del 13 marzo e 22 dicembre 1861) e quello del ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi del 5 marzo 1863 nel quale si richiedeva l’estensione del diritto di voto per le contribuenti nubili o vedove.

Nel 1871 e nel 1876 i ministri Lanza e Nicotera separatamente presentarono progetti di riforma elettorale a livello amministrativo, i quali furono approvati con forti opposizioni ma vennero insabbiati e non furono mai discussi in Senato.

Agostino Depretis (che guidava il governo dal 1876) formulò due nuovi progetti di riforma elettorale a livello amministrativo. Il primo, del maggio 1880 nel quale proponeva di estendere l’elettorato ai cittadini di entrambi i sessi e maggiorenni, in possesso di diritti civili e paganti le imposte, non fu neanche preso in considerazione. Giuseppe Zanardelli controbatte al progetto ribadendo la natura maschile del suffragio devota all’impegno civile e politico che si pone in antitesi con quella femminile che si occupa da sempre dell’educazione, della famiglia.

Il secondo progetto di Depretis, datato novembre 1882, sanciva l’estensione del diritto di voto agli alfabeti maggiorenni: tale progetto viene valutato negativamente. Francesco Crispi nel 1883 affermò che non era conveniente né opportuno estendere questo diritto alle donne perché le tradizioni la vedevano ancora legata alla sfera privata, di conseguenza Depretis non esitò a rinunciare alla questione del voto femminile, ma ottenne un primo allargamento del suffragio maschile.

Il Congresso delle associazioni liberali monarchiche svoltosi nel 1887 fu teatro di una discussione sul voto femminile limitato e inviato tramite posta.

Dal 1890 al Fascismo

La partecipazione delle donne alla vita politica era considerata incompatibile con la sua natura, ma per quanto riguardava il voto amministrativo locale l’opinione pubblica cominciava a fine secolo a recepire opinioni diverse. La prima conquista in questo campo avvenne nel 1890: la legge n. 6972 del 17 luglio conferiva alle donne la possibilità di votare e di essere votate nei consigli di amministrazione delle istituzioni di beneficenza. Iniziava così il cammino che avrebbe portato le donne all’ottenimento del suffragio universale.

Seguirono le leggi: n. 295 del 16 giugno 1893 che ammetteva le donne al voto nei collegi probiviri chiamati a risolvere i conflitti di lavoro; n. 121 del 20 marzo 1910 che conferiva alle donne la partecipazione elettorale nelle Camere di Commercio; n. 487 del 4 giugno 1911 con la quale le donne potevano partecipare alle elezioni di organi dell’istruzione elementare e popolare.

Nel 1922 Benito Mussolini salì al governo. Egli partecipò nel 1923 al IX Congresso della Federazione Internazionale Pro Suffragio e promise di concedere il voto amministrativo alle Italiane a meno che non si svolgessero imprevisti e rassicurò gli uomini parlando di “conseguenze benefiche” che sarebbero derivate dalla suddetta concessione. Tra l’altro Mussolini risaltò il carattere pacato delle suffragette italiane, che reclamavano il diritto di voto senza aggressività.

Il 9 giugno dello stesso anno apparve il disegno di legge che prevedeva la concessione del voto amministrativo limitato spettante: alle eroine della Patria, a coloro madri o vedove di caduti in guerra, alle donne benestanti o istruite.

Il 22 novembre 1925 il fascismo fece entrare in vigore una legge che per la prima volta rendeva le italiane elettrici in ambito amministrativo. Questa legge fu però resa inutile dalla riforma podestarile entrata in vigore pochi mesi dopo e precisamente in data 4 febbraio 1926: così ogni elettorato amministrativo locale veniva annullato, si sostituiva al sindaco il podestà che insieme ai consiglieri comunali non era eletto dal popolo, ma dal governo.

Passando al lato femminile Anna Maria Mozzoni è considerata la più coerente sostenitrice del suffragio nell’Italia dell’Ottocento. Nella sua opera La donna e i rapporti sociali del 1864 aveva scritto che la donna doveva «protestare contro la sua attuale condizione, invocare una riforma e chiedere […]» tra l’altro che le fosse concesso almeno «il diritto elettorale» se non anche la possibilità di essere eletta.

Dal 1908 la socialista Anna Kuliscioff si schierò a favore dell’estensione del suffragio e nel 1910 si oppose suo marito Filippo Turati (anche capo del partito di entrambi): egli scrisse che era favorevole all’estensione del diritto di voto alle donne, ma era convinto che non fosse ancora giunto il momento di concederlo. La Kuliscioff rispose che vi era poca ragione nel rimandare la concessione del diritto di voto alle donne per convenienza politica.