DAILY LA DATA

13 gennaio 1898
Pubblicazione del “J’accuse!” di Emile Zola

Il 13 gennaio 1898 esce, su "L'Aurore", il J'accuse! di Emile Zola: l'editoriale contribuirà a risolvere l'Affaire Dreyfus.

Alfred Dreyfus, ad essere un militare francese, ci teneva sul serio: dopo la sconfitta subìta dalla Francia nella guerra franco-prussiana nel 1870 e la cessione dell’Alsazia ai tedeschi l’anno successivo, scelse volontariamente la nazionalità francese. Un ebreo un po’ sui generis, secondo gli stilemi in voga: aveva lasciato l’industria di famiglia per i campi di battaglia, ultimato l’addestramento con ottimi risultati (nono su ottantun candidati) e – all’epoca dei fatti – stava frequentando uno stage al Ministero della Difesa. Dreyfus era uno dei pochi ebrei ad essere riuscito ad intraprendere quella che sembrava essere una solida carriera militare (in un ambiente per antonomasia antisemita), aveva moglie e due figli.

L’accusa di spionaggio a favore dell’Impero tedesco – sulla base di documenti che si presumevano redatti dall’ignaro ufficiale – gli piombò addosso tra settembre e ottobre 1894, e fu subito etichettata come L’Affaire. Dopo un giudizio sommario, con evidenti violazioni procedurali, Dreyfus fu degradato pubblicamente e condannato alla deportazione a vita sull’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. Quando gli strapparono i gradi e gli spezzarono la spada d’ordinanza, il giornalista Maurice Barrès – della testata nazionalista “La Cocarde” – commentò sprezzante: «Cosa ho da spartire con un tipo così, che avanza verso di noi con l’occhialino sul naso etnico e con l’occhio furioso e secco? Dreyfus non è della mia razza».

La questione era destinata a dividere i francesi: da un lato moti d’antisemitismo furioso, dall’altro la convinzione dei cosiddetti dreyfusards – soprattutto amici come lo scrittore Bernard Lazare, intellettuali radicali come Octave Mirbeau, Émile Zola, Jules Renard, Anatole France – che l’alsaziano  fosse assolutamente innocente. C’è chi, come la storica statunitense Barbara W. Tuchman, definirà l’Affaire e le sue conseguenze politiche «una delle grandi rivoluzioni della storia». Certo è che persino un colpevolista convinto come Georges Clemenceau, soprannominato “Il Tigre”, energico e celebre politico radicale, mutò d’opinione con l’emergere di nuove, schiaccianti prove che inchiodavano come reo di tradimento un certo maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy. Anche il diplomatico italiano Raniero Paolucci di Calboli si convinse ben presto dell’estraneità di Dreyfus ai fatti.

Fu in questo clima di forti contrapposizioni che Émile Zola, su “L’Aurore”, pubblicò il 13 gennaio 1898 la famosa lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Félix Faure, passata alla storia come J’accuse!. Il testo di Zola si poneva l’obiettivo di denunciare pubblicamente i persecutori di Dreyfus e le irregolarità che avevano connotato il processo-farsa. Li chiamò «nemici della verità e della giustizia». È da allora che l’espressione J’accuse! è entrata nell’uso comune, quasi fosse un sostantivo riferito ad una qualsivoglia forma di sopruso. Per il suo editoriale, Zola venne condannato a un anno di carcere e al pagamento di tremila franchi per vilipendio delle Forze Armate (sarà Octave Mirbeau a pagare multa e spese processuali); otterrà l’amnistia nel dicembre del 1900. J’accuse!”, tuttavia, contribuì alla riapertura del caso: già il giorno successivo alla sua pubblicazione, sempre su “L’Aurore”, apparve l’altrettanto celebre Petizione degli intellettuali; oltre ai dreyfusards già citati, s’impegnarono molti giovani brillanti della Parigi di fine secolo, tra i quali Marcel Proust e il fratello Robert, Jacques Bizet, Robert des Flers, e grandi artisti come Manet.

La situazione si risolse solo nel luglio del 1906, quando Zola era già morto da quattro anni: la Corte di Cassazione revocò finalmente la sentenza contro Dreyfus e lo reintegrò nell’esercito con il grado di maggiore. La riabilitazione si svolse nell’indifferenza dei più, in sordina, e venne accettata con un certo fastidio da una parte dell’opinione pubblica. Dreyfus venne descritto, in quell’occasione, dal corrispondente  del “Corriere della Sera”: «immobile, quasi stecchito, la testa alta, lo sguardo smarrito come in un sogno». I familiari lo incoraggiavano: «Viva Dreyfus!» e lui si dice abbia risposto: «No, viva la Repubblica e la Verità». Cocciuto e coerente, nonostante tutto.