«Di pregiudizi razziali sui diversi è pieno il mondo ed essi costituiscono ancora la base di molti conflitti. Credo che questi problemi non debbano essere risolti su basi eroiche. Sono qualcosa che richiede pazienza e talento, che comporta fallimenti».
Il 13 luglio del 2014, nella sua casa di Johannesburg, moriva nel sonno la scrittrice sudafricana, Premio Nobel per la letteratura 1991, Nadine Gordimer, che con questa celebre affermazione aveva espresso il suo insindacabile giudizio contro il razzismo e ogni forma di discriminazione. Lei, che da bianca, aveva lottato contro l’apartheid con il mezzo che più le si confaceva: i libri. Con la grazia e l’eleganza di una eroina borghese, perché quella era la sua estrazione sociale, era una combattente in tailleur, come è stata definita.
Donna tra altre donne come Jean Sinclair e la figlia Sheena Duncan, come Helen Suzman, icona della lotta all’apartheid, scomparsa nel 2009 e per ben due volte candidata al Nobel per la pace. Donne avanti, come Ruth First, accomunate dalla ferrea volontà di combattere il regime segregazionista e costruire un mondo migliore. Anche al prezzo della vita, come la First, appunto, uccisa da un pacco bomba in Mozambico.
Insignita del Booker Prize nel 1974 e del Premio Grinzane Cavour nel 2007, Nadine Gordimer, era nata a Johannesburg, da genitori ebrei, il 20 novembre 1923. Educata alle religione cattolica, fu spinta dalla madre alla lettura e soprattutto a interessarsi di quanto accadeva nel mondo. Fin da piccola, Nadine aveva potuto prendere coscienza delle condizioni disumane in cui vivevano le popolazioni di colore in Sudafrica, aveva imparato a conoscere la parola apartheid e aveva cominciato a sviluppare la propria avversità contro ogni forma di segregazione e di razzismo.
Una avversità che si consolidò negli anni dell’università, durante i quali entrò i contatto con molti intellettuali, giornalisti, musicisti di colore condividendone gli ideali di libertà e di giustizia. Dopo aver interrotto gli studi universitari, proseguì la formazione da autodidatta, leggendo e studiando Proust e Checov, che rimarranno la sua fonte di ispirazione e modello di scrittura.
In questo periodo si avvicinò all’African National Congress di Nelson Mandela e iniziò la propria personale battaglia contro l’apartheid, portando le storie di tutti i sudafricani di colore nelle università degli Stati Uniti in cui insegnava, negli anni 60 e 70.
La sua voce fuori dal coro era più forte e incisiva proprio perché veniva dall’altra parte della barricata, da quella popolazione bianca che cominciava a prendere coscienza e a rifiutare le leggi razziali del proprio paese. Molte delle sue opere affrontano proprio la questione delle tensioni morali e psicologiche dovute alla segregazione. Grandi romanzi, storie asciutte e lucide, quanto «intense e sontuose», come si legge nella motivazione del Nobel, non molto gradite al regime, tanto che alcuni libri furono messi al bando.
Ma la censura sudafricana non riuscì a fermare la forza della sua prosa, intensa e intima, ma capace di mostrare il dolore e la sofferenza causate dall’apartheid, ai lettori di tutto il mondo.
In una frase di uno dei suoi libri più celebri, peraltro tra quelli messi al bando, La figlia di Burger, del 1979 è racchiusa l’eredità di questa grande scrittrice: «il vero significato della parola solitudine è vivere senza responsabilità sociali».