DAILY LA DATA

14 gennaio 1968
Terremoto del Belice

Il 14 gennaio 1968, la terra siciliana della Valle del Belice inizia a tremare: il sisma farà 370 morti e mille feriti.

Due anni fa, a Gibellina – una delle cittadine simbolo del sisma che il 14 gennaio del 1968 colpì in modo devastante la Sicilia occidentale – si è tenuta, nel cinquantenario dell’evento, la commemorazione delle vittime. Il numero accertato varia, ma – all’epoca dei fatti – si parlò di trecentosettanta morti, circa mille feriti e settantamila sfollati. L’area era quella compresa tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. La prima scossa fu avvertita alle 13:28 di quel 14 gennaio, con danni gravissimi da Montevago a Gibellina, da Salaparuta a Poggioreale; la successiva, poco dopo, la sentirono fino a Palermo e a Trapani. Era solo l’inizio: il terremoto era destinato a proseguire nella notte e nei giorni successivi. Quel poco che era rimasto in piedi, crollò per una nuova, violenta scossa il 25 gennaio.

All’inizio, l’entità del sisma venne sottovalutata, ma i primi soccorritori non trovarono più neppure le strade, risucchiate dalla terra; spesso i collegamenti risultarono impossibili. Il post-terremoto vide l’arrivo sull’Isola delle autorità (dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat al ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani) e un massiccio impiego di forze, mille vigili del fuoco, Croce rossa, esercito, carabinieri. Tra tutti, è rimasto celebre il commento di un pilota d’aereo da ricognizione che esclamò: « …è uno spettacolo da bomba atomica (…) ho volato su un inferno».

Buona parte delle informazioni sulla tragedia che aveva colpito il Belice, giunsero al grande pubblico grazie ai corrispondenti dei giornali, soprattutto Giovanni Russo e Mario Bernardini de “Il Corriere della Sera”. Fu Russo a denunciare lo stato di totale indigenza in cui versavano i superstiti, e l’inviato speciale Bernardini intervistò il primario chirurgo dell’Ospedale di Sciacca, professor Giuseppe Ferrara, raccontando l’emergenza costante dei sanitari, i turni estenuanti per salvare quante più vite possibile. Altri giornalisti, come Egisto Corradi, puntarono i riflettori sulla mancanza di un sostanziale coordinamento degli aiuti, specie per quanto concerneva la distribuzione delle derrate alimentari.

Tra i centri colpiti, alcuni paesi furono completamente distrutti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago. Altri subirono forti danni come Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Partanna e Salemi. Il terremoto mise in luce con chiarezza lo stato di arretratezza e povertà della Sicilia occidentale, con una popolazione in gran parte composta da anziani, donne e bambini (i giovani, per lo più, erano già emigrati in cerca di lavoro). Per queste ragioni e per la sostanziale inerzia dello Stato nella ricostruzione, per la mancata conoscenza dei luoghi, il Belice diverrà uno dei primi, tragici casi italiani nella storia del dopoguerra. Un calendario di appuntamenti mancati: opere monumentali come il progetto di una Gibellina città-museo in plein air, ma senza posti di lavoro per gli abitanti; ferrovie mai ricostruite, come la tratta Salaparuta-Castelvetrano che – prima del terremoto – collegava la maggior parte dei siti interessati dal sisma. In compenso, trascurando la fondamentale viabilità ordinaria, venne finanziata e realizzata l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo. Diceva bene Danilo Dolci, detto “il Gandhi italiano” per il suo impegno a favore della pace e delle necessità degli ultimi: «La burocrazia uccide più del terremoto». E ancora: «Si è assassini anche facendo marcire i progetti». Ancor oggi, non tutto è stato ripristinato, tra proclami, stanziamenti, buone intenzioni e infiltrazioni mafiose. Una parte degli antichi borghi è stata riedificata in luoghi distanti da quelli originari, modificando per sempre il volto di quella parte di Sicilia. Non basta il Cretto di Burri, la grande opera di land art che l’artista ha dedicato a Gibellina, a voltare pagina.