Fonzie&Company, lo squalo non l’hanno mai saltato: l’espressione jumping the shark, coniata dal critico Jon Hein e divenuta virale negli anni Novanta, si riferisce al momento in cui una serie televisiva o una saga cinematografica iniziano a degenerare, a divenire poco credibili. Un po’ come nuke the fridge (ossia “nuclearizzare il frigo”) in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, in cui Harrison Ford – per salvarsi da un’esplosione atomica – si chiude in un frigorifero, da cui uscirà inverosimilmente illeso. Nonostante Fonzie abbia provocato Hein, facendo surf in costume da bagno e irrinunciabile chiodo di pelle, millantando di essere talmente in forma da poter saltare uno squalo con la tavola, il calo di popolarità della serie statunitense Happy Days, in onda dal 15 gennaio 1974 per un decennio, sul network TV ABC, non si è mai verificato. Anzi.
Garry Marshall, il creatore del format, con la sua visione idealizzata della vita negli USA a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ha realizzato non solo un prodotto di successo, ma ha influenzato notevolmente anche il pubblico europeo. Le prime due stagioni sono state girate come semplici telefilm, a cui si sovrapponevano risate registrate (secondo l’uso anglosassone), ma la vera forza di Happy Days – dalla terza stagione – sta nell’essere stata concepita come una vera e propria rappresentazione teatrale: gente in studio, e risate autentiche. L’effetto funziona anche al doppiaggio italiano, anche se le risate in sottofondo sono state eliminate.
La gente di Milwaukee, Winsconsin, incarna alla perfezione la generazione del Sogno Americano, tra la fine del coinvolgimento statunitense nella guerra di Corea e l’incubo del Vietnam. Si balla, ci si innamora, si cresce. L’intera vicenda, lunga undici stagioni, per complessivi 255 episodi, gira intorno al quotidiano della famiglia Cunningham: Howard (interpretato da Tom Bosley), proprietario di un negozio di ferramenta; la moglie Marion (ossia Marion Ross), casalinga; i figli Chuck (che sparisce, inspiegabilmente, dopo le prime due stagioni); Richie (un giovane Ron Howard) e Joanie (Erin Moran), detta “sottiletta”. Poi, tanti amici: Ralph Malph, ad esempio, e il celebre “Potsie”. Soprattutto, prenderà sempre più spazio il personaggio di Arthur Fonzarelli, detto Fonzie: meccanico rubacuori, con qualche sfumatura alla James Dean che – da un certo punto in poi – va a vivere sopra il garage dei Cunningham.
L’ironia e la simpatia che Henry Winkler sa attribuire al personaggio ne fanno il vero volto di Happy Days, una sorta di fratello maggiore per Richie e Joanie, un modello per gli altri ragazzi del cast. Un po’ sbruffone, ma sostanzialmente di solidi principi, Fonzie si è fatto da solo. Orfano, cresciuto tra mille difficoltà, verrà in qualche modo “adottato” dalla famiglia; l’unica ad avere autorità su di lui è proprio Marion. Winkler si aggira alzando il pollice in segno di approvazione; commento preferito: «Wow!». Ha una debolezza irresistibile ed ovvia, in un macho sciupafemmine: si vergogna a portare gli occhiali. Per il resto, se la cava egregiamente, per uno abbandonato da piccolo con l’unica raccomandazione: «Ehi, se piove non uscire mai con i calzini».
La popolarità di Arthur Fonzarelli e della sua moto – una Triumph TR5 Trophy (strano, visto che da quelle parti c’è la sede della Harley-Davidson) – ha dato origine ad un’altra espressione, la sindrome di Fonzie, poi attribuita ad ogni inatteso successo di un personaggio minore in una fiction, o persino in un videogioco. Tant’è, a lui la città di Milwaukee, nel 2018, ha persino dedicato un monumento: Happy Days, o della memoria americana.