DAILY LA DATA

15 giugno 1920
Linciaggio di Duluth

Due giovani bianchi denunciano uno stupro commesso da tre lavoratori afroamericani di un circo, che vengono linciati dalla folla e impiccati ai lampioni

Cronache di ordinaria follia a Duluth, Minnesota. È il 15 giugno del 1920: da oltre un anno, la violenza si esercita in mille modi nei confronti dei migranti di colore. Durante e subito dopo la prima guerra mondiale, una vasta popolazione afrostatunitense è migrata dal Sud al Nord del Paese e nel Midwest, suscitando la sorda ostilità della popolazione bianca che la vede come una vera e propria minaccia per la conservazione del posto di lavoro. Dal malumore all’aperta ostilità, che fa esplodere l’antagonismo in tumulti, il passo è breve: la chiamano l’estate rossa, quella del 1919, per il sangue versato e l’ira che acceca. Anche quando gli scontri si placano, la situazione resta tesa, difficile. Del resto, da quelle parti, sono già avvenuti episodi efferati. Nel settembre di un anno prima, Olli Kinkkonen – un immigrato finlandese – è stato linciato, probabilmente perché è riuscito a schivare il servizio militare. Lo hanno trovato – impeciato e impiumato – appeso ad un albero di Lester Park, ma le autorità liquidano la faccenda come «suicidio per vergogna».

Così, quando il circo John Robinson arriva a Duluth per uno spettacolo, il 14 giugno 1920, il clima è già rovente. Tuttavia, dato che le occasioni di svago in città sono scarse, Irene Tusken (diciannove anni, dattilografa) e Jimmie Sullivan (diciott’anni, scaricatore di porto) vanno a curiosare dietro al tendone, per vedere i preparativi. Nessuno sa cosa succeda realmente, ma quella stessa notte Jimmie denuncia un’aggressione ai suoi danni da parte di lavoratori afroamericani del circo e lo stupro di Irene. A nulla serve che, la mattina successiva, il 15 giugno, il medico personale della ragazza, dottor David Graham, non riscontri alcun genere di violenza sulla giovane. L’odio razziale esplode a Duluth: si dice in giro che Irene sia morta a causa dello stupro e, nel corso della giornata, una folla di migliaia di persone si raduna fuori dalla prigione dove sono stati incarcerati – velocemente, un lavoro rapido e pulito – circa centocinquanta lavoratori di colore, personale del circo o del treno che li ha trasportati. La polizia lascia fare, limitandosi a sconsigliare l’utilizzo di armi da fuoco. Bastano le mani: Elias Clayton, Elmer Jackson e Isaac McGhie vengono sequestrati e sottoposti ad un processo farsa in cui sono riconosciuti colpevoli. Poi, li impiccano ad un lampione, all’incrocio tra la 1st Street e la 2nd Avenue East, dopo averli picchiati e torturati a morte. I vendicatori dell’innocenza di Irene, almeno quelli più vicini agli sventurati, continuano a colpire i corpi senza vita. Altri scattano foto in posa con i cadaveri: c’è chi sorride, chi resta impassibile, cercando di entrare nell’inquadratura.

La notizia fa ben presto il giro del Paese: il Minneapolis Journal parla di «una macchia sul nome del Minnesota», ma il giudice William Cant e la sua giuria – pochi giorni dopo – emetteranno condanne piuttosto miti per gli autori del linciaggio. Nessuno pagherà per l’omicidio di Elias, Elmer e Isaac che verranno seppelliti nel cimitero di Park Hill, accanto al povero Olli Kinkkonen.

A ricordarli, oltre al memoriale eretto nel 2003 sul sito dell’orrore, i versi di Bob Dylan – originario di Duluth – che rievoca la strage proprio nell’incipit della sua Desolation Row: «They’re selling postcards of the hanging / They’re painting the passports brown / The beauty parlor is filled with sailors / The circus is in town» (Vendono cartoline dell’impiccagione / Tingono i passaporti di marrone / Il salone di bellezza è pieno di marinai / Il circo è in città). Suo padre c’era, ha ribadito Dylan, aveva nove anni. A ripensarci, nonostante i memoriali e le belle parole, poco è cambiato.