LA DATA

27 agosto 1950

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…».

Il 27 agosto 1950 era una domenica, come oggi. La cameriera di un albergo di piazza Carlo Felice a Torino trova in una stanza un uomo senza vita. Ha solo 42 anni ed è morto suicida dopo avere ingerito dieci bustine di sonnifero. Quell’uomo era uno dei più grandi intellettuali del suo tempo, scrittore, poeta, traduttore, editor e straordinario talent scout soprattutto di narratori americani. Quell’anno, il 1950, era arrivato all’apice del successo, aveva appeno vinto il Premio Strega per i tre romanzi brevi raccolti in La bella estate. Ma era profondamente infelice. Il suo nome campeggiava sulla copertina del libro lasciato sul comodino: Cesare Pavese. Si trattava di una copia della sua opera forse più famosa, Dialoghi con Leucò. Nel frontespizio aveva lasciato scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Un addio in sordina aveva voluto, ma tutta la sua opera avrebbe poi continuato a parlare di lui e continua a farlo. Il diario, in particolare, che venne pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere e contenente le annotazioni degli ultimi quindici anni dello scrittore, rivelatosi un vero e proprio manifesto della poetica dell’artista. All’interno del volumetto Einaudi lasciato nella camera d’albergo Pavese aveva lasciato un foglietto con una citazione dal suo libro: «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». E poi una dal proprio diario: «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti». Infine una breve frase. «Ho cercato me stesso».

Cesare Pavese se ne andava dopo aver scritto di tutto: racconti, romanzi, poesie, sceneggiature. E anche articoli di giornale. Nel dopoguerra si iscrisse al PCI e cominciò a collaborare con L’Unità, dove conobbe Italo Calvino che divenne poi il suo braccio destro come editor alla Einaudi. Ma in fondo a lui restava un’insoddisfazione, che non era dovuta soltanto agli insuccessi amorosi. Era quella che l’italianista Dominique Fernandez, in un poderoso studio dedicato allo scrittore di Santo Stefano Belbo, aveva definito già nel titolo L’échec de Pavese, lo scacco di Pavese, quel senso di perenne sconfitta che attanaglia chi come lui non può accontentarsi della superficialità delle cose.

Di quello scacco insopprimibile aveva scritto più volte nel diario e soprattutto nelle poesie, in particolare quelle edite dopo la sua morte con il titolo Poesie del disamore e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Quest’ultimo è il titolo anche di una lirica che è un po’ il suo testamento e che si conclude con il verso: «Scenderemo nel gorgo muti». Così fece Cesare Pavese, l’ultima domenica di agosto di 67 anni fa.