LA DATA

16 agosto 1977

6 agosto 1977. Esattamente 40 anni fa, poco prima delle 2 del pomeriggio, a Memphis, Tennessee, Elvis Presley, veniva trovato privo di sensi nel suo bagno personale, a Graceland, la maestosa villa in cui viveva con i familiari, gli assistenti, il manager, il medico, la Memphis Mafia, come venne definito allora l’entourage dell’artista. Inutile la chiamata al 911 e la corsa verso il Baptist Memorial Hospital, dove The King, arrivò ormai privo di vita. Il laconico verdetto dei medici fu «morte per attacco cardiaco», anche se dall’autopsia emersero tracce di ben quattordici sostanze medicinali differenti, che in seguito si scoprì essere state prescritte legalmente dal suo medico personale, George Nick Nichopoulos. Fu lui, molti anni dopo, in un libro pubblicato nel 2010 in cui racconta la sua vita accanto al re del rock, a formulare l’ipotesi sulla vera causa della morte. Niente overdose di farmaci, ma una condizione patologica, detta costipazione cronica, provocata dall’alimentazione sregolata e dagli eccessi cui Elvis sottoponeva il proprio corpo. In estrema sintesi, una morte poco regale per The King.

«My son is gone», furono le sole parole che il padre Vernon pronunciò, alle 16 di pomeriggio, alla folla che intanto si era radunata davanti ai cancelli di Graceland, quando aveva cominciato a circolare la notizia.

Il mito lasciava così la vita terrena per continuare a vivere per sempre nella storia della musica, nel cuore dei fans, nei suoi film, nell’eredità artistica che ha lasciato a chiunque sia venuto dopo di lui, nelle leggende metropolitane che lo vorrebbero ancora vivo e vegeto, in fuga da una vita e da ritmi che non riusciva più a sostenere.

Pare che, secondo un sondaggio effettuato in Inghilterra, i cittadini di Oltremanica ci terrebbero a far resuscitare più lui che lady Diana. Del resto Elvis è stato più che un cantante, attore, performer del rock. È andato oltre la musica, ha influenzato l’intera cultura americana ed è diventato una delle più grandi icone del ventesimo secolo

Una vita esagerata quella di Elvis The Pelvis, come venne soprannominato per il celebre movimento del bacino che amava fare sul palco, piena di eccessi. Dall’eccessiva povertà, compensata, scrivono i biografi, dal grande affetto dei genitori, all’eccessiva grandezza della sua dimora, peraltro dichiarata monumento nazionale e la seconda casa più conosciuta degli Stati Uniti, dopo la White House, all’eccessiva quantità di burro di arachidi che mangiava ogni giorno, all’eccessiva quantità di farmaci che buttava giù, l’eccessiva stravaganza dei suoi vestiti, all’eccessiva ostentazione della ricchezza incommensurabile che aveva accumulato.

Un re a tutti gli effetti che nella sua carriera ha venduto oltre un miliardo di dischi, ha ricevuto 149 dischi d’oro e di platino (in Inghilterra ha piazzato 18 hit, contro i 17 degli Scarafaggi di Liverpool), tre Grammy Awards assegnati nel 1968, nel 1973 e nel 1975, e 14 nomination.

Eletto artista del secolo, è l’unico al mondo che ha un posto in ben quattro Hall of Fame: rock, rockabilly, country e gospel. Lo show Elvis: Aloha fro Hawaii, trasmesso via satellite in mondovisione il 14 gennaio del 1973, fu seguito da oltre un miliardo di persone.

Non c’è artista al mondo che non ne sia stato influenzato, che siano i Beatles, gli U2, Springsteen. «Prima di Elvis non c’era niente», diceva, infatti, John Lennon. Elvis aveva spazzato via musica precedente. Grande musica, dalla quale lui stesso aveva attinto ispirazione, ma che non parlava ai giovani. «Ascoltare lui la prima volta fu come scappare di prigione», è la frase attribuita a Bob Dylan.

Carismatico, ribelle, innovativo, rivoluzionario. Per riassumere ciò che è stato forse sono sufficienti due battute del film The Committments, di Alan Parker: «Elvis non è soul» dice il protagonista Jimmy Rabbitte al padre. Il padre risponde: «Elvis è Dio!».