LA DATA

16 marzo 1968

Era cominciata come una mattina qualsiasi, quella del 16 marzo 1968 a My Lai, una delle quattro frazioni raggruppate nei pressi del villaggio di Son My, nella provincia di Quang Ngai, 840 chilometri a nord di Saigon. La guerra del Vietnam era iniziata da circa otto anni: da una parte l’esercito del Vietnam del Nord, guidato dalla dittatura comunista di Ho Chí Minh e sostenuto da Unione Sovietica e Cina; dall’altra le truppe del Vietnam del Sud in cui – dopo la guerra d’Indocina – si era instaurato un regime anticomunista, appoggiato dagli Stati Uniti e guidato da Ngô Dình Diêm. Il conflitto era destinato a durare fino al 1975, con il progressivo coinvolgimento degli U.S.A., soprattutto a partire dal 1962, con l’amministrazione democratica di John Fitzgerald Kennedy e poi, dal 1968, con il suo successore Lyndon Johnson.

A My Lai, proprio il 16 marzo di quell’anno, arrivò la compagnia C della 23esima Divisione di Fanteria dell’esercito statunitense, guidata dal tenente William Calley. Non trovarono nessun vietcong nel villaggio: solo donne che preparavano il riso per il pasto, vecchi e bambini. Nonostante non ci fossero uomini in assetto da combattimento e non fosse stato emesso un solo colpo, i soldati americani iniziarono a sparare contro chiunque, incendiare le case, massacrare il bestiame, violentare le donne. In base a testimonianze successive, si sa che trascinarono moltissime persone, compresi i bimbi, in una fossa, prima di ucciderli a colpi di mitragliatrice. «C’era un uomo con due piccoli al seguito e un cestino in mano che andava contro ai soldati, sul volto la disperazione. Gridava “No VC, No VC, No VC”, per spiegare che loro non erano vietcong. Uno dei militari non fece una piega. Sparò a tutti e tre»: nel racconto di Ron Haeberle, testimone di quella mattanza e fotografo, c’è tutto l’orrore della strage. Le sue immagini riveleranno, ad un’America incredula e sgomenta, quanto fosse successo.

Partito per conto del Cleveland Plain Dealer, il giornale della sua città, a ventisei anni Ron era uno dei più vecchi della Compagnia Charlie, impegnata nella missione nel Sud Est asiatico (l’età media dei suoi commilitoni non superava i vent’anni). A chi partiva per il fronte, racconta, in quella che si sarebbe rivelata una delle guerre più logoranti e cruente condotte dagli U.S.A., dicevano: «Andate e sparate, i vietnamiti non sono umani». Erano in Vietnam da poche settimane. «Girava voce che i vietcong fossero nascosti nel villaggio di My Lai», prosegue Haeberle. Informazione che poi si rivelò sbagliata, ma il massacro fu ugualmente ordinato e perpetrato: «Udii molti spari, pensai che fossimo all’inferno, in una zona calda, – commenta – ma dopo un paio di minuti mi fu chiaro che non era così». Ronald Haeberle iniziò a scattare, come in trance, di fronte a quel delirio di follia omicida, non con la Leica ufficiale fornita dall’esercito, ma con la sua Nikon personale. Fu l’arrivo di un elicottero statunitense che sorvolava la zona, guidato dal sottufficiale Hug Thompson, che si frappose a forza tra i pochi vietnamiti rimasti in vita e i soldati della fanteria, ad arrestare la strage. Tuttavia, ad inchiodare l’esercito, furono le foto di Ron: quei cadaveri, ammassati su un sentiero della giungla, convinsero gli increduli dalla prima pagina del Plain Dealer, il 20 novembre dell’anno successivo. Il pilota dell’elicottero affrontò sul campo i comandanti delle truppe americane, minacciandoli di aprire il fuoco se non si fossero fermati. Thompson stesso diresse l’evacuazione del villaggio: le vittime furono 504, civili inermi, principalmente anziani, donne, bambini e neonati.

Del massacro non si seppe nulla per un anno intero.Q ualche mese dopo, anche grazie alla lettera di un soldato che denunciava il comportamento degli americani nei confronti dei civili vietnamiti, vennero istituite due commissioni d’inchiesta che non condussero a nessun risultato (lo stesso Colin Powell, all’epoca maggiore dell’esercito incaricato delle indagini, concluse che le relazioni tra soldati statunitensi e popolazione vietnamita erano eccellenti). Solo nel novembre 1969, un altro soldato informato sui fatti ne parlò con il giornalista investigativo Seymour Hersh. L’inchiesta di Hersh, dopo essere stata rifiutata da alcune grandi testate , venne pubblicata dalla piccola agenzia Dispatch News Service. Nel giro di una settimana, il massacro di My Lai campeggiava su TimeLifeNewsweek, cosi come le foto di Haeberle.

Grazie al suo scoop sulla strage, Hersh vinse il Premio Pulitzer nel 1970 e si giunse finalmente ad incriminazioni formali. L’esercito accusò solo quattordici uomini, tra cui Calley e il suo diretto superiore, il capitano Ernest Medina. Furono tutti assolti, tranne Calley che – nel 1971 – fu giudicato colpevole di omicidio premeditato e condannato all’ergastolo (condanna poi tramutata da Richard Nixon in arresti domiciliari, di cui scontò poco più di tre anni, in Georgia). Restano, atroci, le immagini dei bambini ripescati dalle fosse a My Lai, con la lettera “C” incisa sul petto dalle baionette, e la triste consapevolezza di Chris Taylor, il protagonista di Platoon di Oliver Stone: «Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico … abbiamo combattuto contro noi stessi. Il nemico era dentro di noi».