LA DATA

17 marzo 1938

Le ballerine in erba del Teatro La Scala, tra le quinte, facevano a gara per spiarlo, il tataro volante, preso dallo struggente pas de deux maschile Chant du compagnon errant di Maurice Béjart. Correva l’anno 1974 e Rudolf Nureyev era di casa a Milano: Lorenzo Arruga – solo tre anni prima – lo aveva beatificato sulle pagine de Il Giorno: «… questa vecchia Giselle ci manda a casa felici di aver respirato danza». Le allieve del corpo di ballo vedevano in lui un danzatore autentico, capace di esprimersi non solo con il corpo. Non era il più grande dei virtuosi, Rudy, e lo affermava con naturalezza: «Altri hanno una tecnica acrobatica maggiore della mia, o sono più belli: – spiegava – ma credo sia molto più importante saper usare i propri difetti, i propri limiti per fare dell’arte». Mai profezia fu meno azzeccata di quella del direttore del Teatro Kirov di Leningrado, al primo provino del diciassettenne Rudolf: «Giovanotto – lo apostrofò stizzito – potresti diventare un grande ballerino, oppure un totale fallimento, e probabilmente tu sarai un totale fallimento». Nulla di meglio, per provocare la reazione infuriata ed orgogliosa del giovane.

La sua storia, da subito favolosa e romanzesca, era iniziata su un vagone passeggeri di un convoglio della Ferrovia Transiberiana, dove sua madre – nei pressi di un posto chiamato Irkutsk – lo mise al mondo il 17 marzo del 1938, viaggiando verso Vladivostok (dove era di stanza il padre, commissario politico dell’Armata Rossa). Un segno del destino, una premonizione di quella che sarebbe stata la sua vita futura, di teatro in teatro, di pubblico in pubblico: «Quando sarò morto – scherzava con gli amici decenni dopo – mi erigerete una statua; mi si vedrà mentre mi alzo da una sedia con due valigie, pronto a partire …». Ultimo di cinque figli, nelle vele gli scorreva sangue tataro. Dopo Vladivostok, la famiglia si trasferì a Mosca e poi, nel 1941, venne sfollata in un piccolo villaggio nei pressi di Ufa, in Baschiria. Furono anni difficili, minati dalla tragedia della seconda guerra mondiale: «Di quei tempi – ricordava Nureyev spesso, anche parlando durante le prove con gli allievi – so una cosa sola, la fame generale, il desiderio di mangiare qualcosa di diverso da una patata …». Tuttavia, fu proprio Ufa a fornire al ragazzo la prima illuminazione: nella città c’era un teatro dove – la sera del 31 dicembre 1944 – la madre Farida lo portò ad assistere ad un balletto interpretato da Zajtuna Nazretdinova. Fu un colpo di fulmine. Da allora, il giovane Nureyev provò ogni via per danzare, anche se il padre lo ostacolava di continuo: si fece iscrivere  in una classe di danza folkloristica; a undici anni fu scoperto da Ana Udeltosova, ballerina dei Ballets Russes di Diaghilev, che insegnava in quel periodo a Ufa ad un gruppo amatoriale. Il giovane ballerino mirava, tuttavia, ad entrare nella prestigiosa scuola del Kirov. Nonostante il giudizio del direttore, vi riuscì;  ottenne il diploma in soli tre anni e, contemporaneamente, vinse il primo premio al Concorso Nazionale di Balletto Classico che si teneva a Mosca.

Nureyev, però, da spirito indipendente ed insofferente alle regole, si sentiva stretto nei confini sovietici, nelle tournée nazionali, nella chiusura al mondo occidentale. Finché, il 17 giugno 1961 – durante una trasferta del Kirov a Parigi – decise di non tornare in patria e chiese asilo politico in Francia. Sarà solo Michail Gorbaciov a concedergli uno speciale permesso per riabbracciare sua madre, nel 1987. «Non avevo niente con me, solo pochi spiccioli in tasca e nessuna offerta di lavoro – racconterà – potevo contare solo sul mio corpo. Ma dovevo rischiare, e fu il più grande volo della mia carriera». Il successo non si fece attendere: nacque con Nureyev l’icona pop del ballerino, non più semplice portatore di Étoiles, ma finalmente protagonista; con lui cambiarono i ruoli, le coreografie, persino gli abiti di scena (prima di Nureyev, nessun maschio in Russia aveva mai danzato in calzamaglia). Anche i confini tra classico e moderno, gradualmente, per merito suo, sparirono. Nel 1962, l’incontro con Margot Fonteyn sancì un sodalizio artistico e un’amicizia destinati a durare tutta la vita: il 21 febbraio dell’anno successivo, al termine di una Giselle applauditissima al Covent Garden, Nureyev si inginocchiò e – in un afflato per lui raro – baciò la mano alla sua partner, in una dichiarazione di onore e fedeltà a cui non venne mai meno.

Da allora in poi, di Rudolf Nureyev si accettò tutto: non solo la grandezza sul palco, ma anche i travestimenti improbabili, gli amori travolgenti e qualche volta inventati (come il legame con Freddy Mercury), le notti sfrenate nei locali. Anche se non amava la mondanità e vantava un carattere iracondo e volubile, fu l’idolo del jet set di quegli anni; Jacqueline Kennedy, Maria Callas, Andy Warhol se lo contendevano. Forse avrebbe voluto morire in scena, danzando fino all’ultimo respiro, ma l’Aids non glielo consentì, sottraendolo al suo pubblico il 6 gennaio 1993, a cinquantotto anni. Restò indimenticabile per la gente che assiepava i teatri, in tutto il mondo, per vederlo volare. Resta grande, immenso, contemporaneo nel cuore delle giovani ballerine che lo spiarono: per imparare che la danza, prima che tecnica e perfezione, è vita.

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