IL NUMERO

194

È il numero della legge della Repubblica italiana che il 22 maggio 1978 regolamentò la possibilità di abortire nel nostro paese. “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” è il titolo completo della direttiva che, tra qualche giorno, compie quaranta anni e che, a detta di molti giuristi, rimane una delle normative più moderne su un tema etico tanto scottante.

Un “compleanno” che non sta passando inosservato ai molti movimenti culturali che derivano da quel periodo di conquiste civili, né ai tanti detrattori. È di qualche settimana fa la polemica sul manifesto affisso a Roma dall’associazione ProVita che, proprio per rimarcare la sua contrarietà all’aborto ha scelto la foto di un embrione, stampata su uno spazio di 7 metri per 11, accompagnata da una lunga frase che chiosa: «Ora sei qui perché la tua mamma non ti ha abortito».

La sindaca Raggi si è vista costretta a far rimuovere il manifesto  che violava il regolamento per le pubbliche affissioni dell’amministrazione capitolina in cui sono vietate «esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivi del rispetto di diritti e libertà individuali». Eppure l’associazione ProVita e le altre che, magari in modo meno eclatante, esprimono le proprie opinioni in merito, dimenticano che la legge 194 non è certo da buttare. Lo conferma anche una recente ricerca statunitense, compiuta dal Guttmacher Institute, che si occupa di studi sulla salute riproduttiva, che sottolinea come la 194 sia una delle leggi più valide al mondo, grazie alla quale in Italia il numero aborti è minore rispetto ai paesi dove è illegale.

Secondo la ricerca, infatti, la politica del proibizionismo non limita il ricorrere a questa pratica e porta, anzi, gravissime conseguenze per la salute delle donne.

Nei paesi dove l’aborto non è consentito ricorrono, in media, all’interruzione di gravidanza 37 donne in età fertile su mille, mentre in stati come l’Italia, dove si garantisce la libertà di scelta, sono 34 su mille le donne che decidono di non portare a termine la gestazione.

E questo nonostante nel nostro paese sia molto diffusa tra i medici l’obiezione di coscienza. Sono circa sette su dieci i ginecologi obiettori che lavorano negli ospedali pubblici italiani e la loro scelta di non praticare interruzioni volontarie di gravidanza è legittimata proprio dalla legge 194.

In quarant’anni la “legge sull’aborto” ha stravolto il modo di concepire e vivere la salute riproduttiva in Italia. Lo dimostrano anche i dati diffusi a gennaio dal ministero della salute in una relazione che prende in esame i numeri relativi all’interruzione volontaria di gravidanza fino al dicembre 2016: rispetto al 1982, anno in cui si è raggiunto il valore più alto nel nostro paese, il numero di interruzioni volontarie di gravidanza è diminuito di oltre il 74 per cento.

Alla legge 194 si è arrivati dopo una lunga battaglia che, accanto a quella per istituire il divorzio, ha visto le donne in prima linea, sostenute però da una parte della società che riteneva doveroso difendere la possibilità per chiunque di determinare il proprio futuro.

La campagna a favore dell’aborto legale si avvia nel 1975 e parte dalla richiesta di abrogare gli articoli del codice penale (il 545, 546, 547 e 548) che consideravano l’interruzione volontaria di gravidanza un reato, punibile con la reclusione sia per chi vi ricorreva che per chi la praticava.

Inizia in quell’anno la richiesta di un referendum per far esprimere i cittadini sull’abrogazione di questi articoli del codice penale, che punivano i «delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe».

In un articolo del 2 febbraio 1975, dalle pagine dell’Espresso, Livio Zanetti spiega le ragioni per cui anche la rivista sosteneva la raccolta firme per il referendum abrogativo e tra queste: «…perché desideriamo dare il nostro contributo alla fondazione di una società in cui le nascite siano veramente felici, i bambini veramente desiderati, le donne pienamente responsabili». E proprio questo senso di responsabilità deve guidare e condurre le donne che si trovano a riflettere su questa drammatica scelta. Lo stesso senso di responsabilità che dovrebbe impedire a chi mai, per motivi etici o religiosi, compirebbe questa azione di puntare il dito verso chi, al contrario, si trova a prenderla in considerazione.

Perché si deve ricordare che garantire la possibilità di una scelta consapevole e resposabile è il presupposto di uno stato civile.

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