LA DATA

27 settembre 1920

«Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Questa frase di Paolo Borsellino calza a pennello con la vita e la storia di un’altra vittima illustre della mafia: il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, nato a Saluzzo in provincia di Cuneo il 27 settembre 1920, trucidato a colpi di kalashnikov, insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente di scorta, Domenico Russo, il 3 settembre 1982, in via Carini a Palermo.

Figlio di un carabiniere, partigiano, noto per il suo impegno contro il banditismo prima, contro le Brigate rosse poi, il generale Dalla Chiesa era già stato in Sicilia, per la precisione a Corleone, la prima volta alla fine degli anni Quaranta, con il grado di capitano dell’Arma. A lui toccò l’indagine per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, per il quale individuò il mandante in Luciano Liggio.

Comprese subito come “ragionava” la mafia e imparò a conoscerla, il giovane “ufficiale nordista” ritratto da Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta. Tanto da essere di nuovo inviato a Palermo dal 1966 al 1973. Già allora cominciò ad indagare sulle relazioni tra mafia e politica, non solo in Sicilia, ma nel resto del Paese. «Chiunque pensasse di combattere la mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo», disse a Giorgio Bocca in una intervista a “La Repubblica” del 10 agosto 1982, quando venne inviato a Palermo come prefetto antimafia. Aveva già capito tutto 16 anni prima. E fu Dalla Chiesa ad occuparsi delle indagini, condotte insieme alla polizia guidata da Boris Giuliano (ucciso dalla mafia nel 1979), per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e per l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione.

Dal 1973 al 1981, Dalla Chiesa, che nel frattempo era stato promosso generale, si occupò della lotta alle Brigate rosse, con il Nucleo antiterrorismo prima, come coordinatore delle forze di polizia e degli agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo (con poteri speciali e alle dirette dipendenze del Ministro dell’Interno, in quel periodo Virginio Rognoni) poi. I successi nella lotta alle Br non furono immuni da critiche e polemiche, soprattutto per i metodi utilizzati, per l’uso degli infiltrati, tra cui un discusso personaggio, Silvano Girotto, detto “frate mitra”, per i poteri speciali conferiti da Rognoni a Dalla Chiesa, ma gli valsero la nomina a vicecomandante generale dell’Arma.

Quando, nel 1982, venne inviato a Palermo con la carica di prefetto (si insediò il 30 aprile, il giorno dell’omicidio di Pio La Torre), in molti auspicavano che avrebbe raccolto contro la mafia gli stessi risultati della lotta al terrorismo. In molti altri, no. Rognoni gli aveva promesso poteri speciali, ma questa volta tardavano ad arrivare. Anzi, non sarebbero mai arrivati. «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì. Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti», ebbe a dire.

Meno di 100 giorni durò la “missione” del generale in Sicilia. Quando ad agosto rilasciò a Giorgio Bocca la citata intervista, nelle sue parole c’era la presa d’atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che avevano consentito alla mafia di agire indisturbata per anni. Sapeva troppo anche di altro, Dalla Chiesa: il caso Moro, l’organizzazione Gladio, il ruolo di Giulio Andreotti, l’omicidio Pecorelli. La sera della strage, qualcuno fu mandato a casa del prefetto per cercare lenzuola e coprire i cadaveri, ma si dice che questa persona ne approfittò per aprire la cassaforte e sottrarre documenti sensibili, tra cui la parte del dossier sul caso Moro che il generale non aveva consegnato ad Andreotti (secondo quanto la moglie di Dalla Chiesa aveva confidato alla madre).

Fu del resto lo stesso boss Tano Badalamenti a dire che «Dalla Chiesa lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui».

Falcone ai funerali di Dalla Chiesa

All’indomani della strage di via Carini, comparve una scritta sul luogo dell’agguato, con la quale i cittadini di Palermo vollero salutare chi aveva ridato loro, anche se per poco, la fiducia nello Stato. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti» avevano scritto. E la speranza dei siciliani e degli italiani onesti sarebbe morta ancora e ancora, a Trapani, in via Pipitone, ad Agrigento, a Capaci, in via d’Amelio.