LA DATA

28 dicembre 1943

All’alba del 28 dicembre 1943 i sette fratelli Gelindo, Antenore, Aldo, Agostino, Ferdinando, Ovidio, Ettore Cervi vengono fucilati senza processo dai fascisti repubblicani nel poligono di tiro di Reggio Emilia. La loro sorte viene taciuta a lungo, è un epilogo abnorme e feroce in un mondo contadino nel quale in una famiglia non si uccidono tutti i figli maschi, perché c’è da continuare la vita, coltivare la terra, crescere i figli. Che avevano fatto, i fratelli Cervi? Antifascisti, lavoravano con grandissima lena e studiavano molto, per capire e per coltivare meglio; non erano più mezzadri ma affittuari, perciò la terra la coltivavano per sé. Il cascinale della famiglia Cervi diventerà, dopo l’8 settembre 1943, un rifugio per antifascisti e partigiani feriti, per i prigionieri stranieri sfuggiti ai nazifascisti, fra i quali soldati sudafricani e sovietici. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre 1943, durante un rastrellamento, le pattuglie fasciste arrivarono a casa Cervi, appiccarono il fuoco e arrestarono i sette fratelli assieme al padre, ad alcuni partigiani russi e ad altri partigiani, fra i quali  Quarto Camurri, che subirà la stessa sorte dei Cervi. Il 27 dicembre avvenne l’uccisione da parte dei partigiani del segretario comunale di Bagnolo in Piano Davide Onfiani e il 28 dicembre i sette fratelli Cervi e Camurri furono fucilati per rappresaglia: uno a dieci, come i fascisti della repubblica di Salò avevano imparato dai nazisti. Nelle prime pagine del suo libro I miei sette figli, Alcide Cervi scrive: «da noi trovate famiglie unite come le dita di una mano, e sono unite perché hanno una religione: il rispetto dei padri, l’amore al progresso, alla patria, alla vita e alla scienza. E soprattutto noi, contadini emiliani, amiamo la patria e il progresso. Così non si ha paura di morire. Avete mai visto quelli che quando parlano in pubblico diventano rossi? Non è mica perché sono timidi e modesti, ma perché sono superbiosi. Mica vedono la gente, vedono solo la persona loro e si impressionano ché li guardano. Così quando la morte li guarda sentono paura e si trovano soli, perché hanno il terrore della morte come avevano paura della vita. Il sole non nasce per una persona sola, la notte non viene per uno solo. Questa è la legge, e chi la capisce si toglie la fatica di pensare alla sua persona, perché anche lui non è nato per una persona sola. I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano, e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i Manfredi, i Miselli, i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte». Il vecchio Alcide aveva settant’anni e volentieri sarebbe morto in pace al suo tempo, senza dover tenere duro con le medaglie alla memoria dei figli sul petto: ma c’erano le vedove e i nipoti, e la terra da coltivare. Morirà nel 1970, a 95 anni; per dargli l’ultimo saluto andarono a Reggio Emilia duecentomila persone. Il 28 dicembre 1943, a Campegine restano con lui quattro vedove e undici bambini, e crescere senza conoscere il proprio padre è dura: «in cambio di un ricordo, di una reliquia (e non diremo che è una bestemia), certe volte darei indietro volentieri il film e i libri e gli articoli e tutta la montagna di parole che hanno scritto su di te, su di voi, – scrive Adelmo Cervi, figlio di Aldo, nel libro Io che conosco il tuo nome – come se non fosse successo niente: perché avrebbe anche potuto non succedere niente e la vita andare avanti normale, per te, per voi e per tutti. Gioie e disgrazie di una vita normale, per Aldo e Gelindo, per Ovidio e Agostino, e Antenore e Ferdinando, e per Ettore, che era poco più che un cinno, un ragazzino».