IL NUMERO

35.000

Sono 35.000 le donne a cui, terminata la seconda guerra mondiale e ripristinata la democrazia, fu riconosciuta la qualifica di “partigiana combattente”, a fronte di 150.000 uomini insigniti dello stesso riconoscimento. La disparità ovviamente non è data da una minor adesione di quello che fino allo sfinimento e certo non per motivi di ossequio, è stato definito il “gentil sesso”. Ebbero probabilmente meno peso nelle azioni di combattimento vero e proprio, ma la rete della Resistenza all’occupazione nazista non sarebbe stata in piedi senza il loro fondamentale supporto.

Erano loro che stampavano nella clandestinità volantini, manifesti e giornali, trasportandoli, diffondendoli, attaccandoli ai muri delle città; erano loro che rifornivano di armi, cibo, esplosivi, documenti, medicinali e vestiti le bande nascoste in montagna; o che, passando i posti di blocco delle SS servendosi di un sorriso e di tanto sangue freddo, portavano dispacci e preziose informazioni da una base all’altra. Erano ancora loro a curare i feriti in rifugi trasformati in ospedali da campo, a far sì che quegli accampamenti non implodessero, a nascondere in soffitta o in cantina chi non doveva assolutamente essere scoperto.

Probabilmente quel divario è dovuto al fatto che a molte di quelle donne che hanno fatto tutte quelle cose per giungere all’obiettivo di cacciare l’invasore, far tornare la pace, la democrazia e forse anche un ordinamento sociale diverso da quelli sperimentati fino allora, il socialismo, quel riconoscimento è stato ingiustamente negato o, in misura ancor più significativa, nemmeno lo hanno chiesto. Per modestia, per sottovalutazione, perché si sono subito gettate a far altro, a far vivere il sogno finalmente realizzato.

Nei libri di storia si accenna appena alla partecipazione delle donne alla Resistenza, sebbene il loro apporto si sia rivelato determinante ai fini di una maggior efficacia dell’organizzazione delle formazioni partigiane. Merita leggere La resistenza taciuta, un libro di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina su dodici vite partigiane al femminile.

I dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (Anpi) relativi all’impegno delle donne nella Resistenza dicono che di quelle 35.000 partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti, 7.000 erano organizzate nei Gruppi di difesa; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto, 512 le commissarie di guerra.

Le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti sono state 4.633, 1.890 le deportate in Germania, 683 quelle fucilate o cadute in combattimento; 1.750 le donne ferite. E poi 16 medaglie d’oro, 17 d’argento.

Cifre troppo piccole per rappresentare la reale entità dell’apporto femminile alla Resistenza, una realtà che resta ancora poco conosciuta e studiata.

La qualifica di “partigiano combattente” veniva infatti assegnata solo secondo criteri rigidamente militari. Era considerato tale chi aveva portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata regolarmente riconosciuta dal “Comando Volontari della Libertà” ed aveva compiuto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra.

Non è stato tenuto in considerazione, insomma, il fatto di quanto determinante sia stato dare assistenza ai partigiani, attraverso molteplici attività materiali, alle quali si deve aggiungere l’importantissimo ruolo di orientamento politico, formazione e sensibilizzazione svolto da numerosissime donne di ogni estrazione sociale – operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti – in città come in campagna. Fu infatti per lo più femminile l’organizzazione di veri e propri corsi di preparazione politica e tecnica, di specializzazione per l’assistenza sanitaria, per la stampa dei giornali e dei fogli del Comitato di Liberazione Nazionale.

L’antifascismo fu, per le donne, una scelta difficile, dettata non solo, come per gli uomini, dal timore dei rastrellamenti, delle violenze, delle rappresaglie. Una scelta che doveva fare i conti con l’antico e quasi istintivo rifiuto della guerra, con la nulla dimestichezza nell’uso del moschetto. Per molte donne significò la conquista della cittadinanza politica: il desiderio di liberarsi dai tedeschi si intrecciava con quello di conquistare la parità con l’uomo. Fu dunque, in una certa misura, una guerra nella guerra, fatta magari non guerreggiando, ma con la consapevolezza di riappropriarsi del proprio valore e delle proprie capacità, di dover rompere un antico sistema di controllo sociale amplificato dalla guerra. Era in gioco l’emancipazione da una millenaria subordinazione, il riconoscimento di un ruolo pubblico nel nuovo sistema democratico, fino ad allora negato.

È bello ricordare le donne che parteciparono silenziosamente alla Resistenza fino al punto di non farsi riconoscere per quanto hanno fatto con quello che Stefania Maffeo, in un articolo intitolato Storia delle donne partigiane: fu una Resistenza taciuta, dove è possibile trovare altre preziose informazioni sull’argomento, indica come il loro simbolo: «Una comune borsa da spesa, nella quale nascondevano sotto pomodori e peperoni, le informazioni cifrate dei partigiani nelle pericolosissime missioni di collegamento».