A Belluno nasce Marco Paolini, uno dei massimi esponenti della prima generazione italiana del teatro di narrazione, caratterizzato da un attento studio dei testi e da un allestimento scenico povero, privo di costumi, trucco e scenografie, interamente incentrato sul performer-narratore, la voce, il gesto, l’empatia con il pubblico.
Il teatro al grado zero, insomma, dove la parola emerge da uno scavo profondamente vero, una ricerca attenta e sedimentata che, nel caso di Paolini, ha dimostrato di saper reggere anche il confronto con il mezzo televisivo: memorabile la messa in onda del suo Vajont, in diretta dai luoghi del disastro, nell’anniversario dello stesso, il 9 ottobre 1997. Un racconto, quest’ultimo, che ha l’andamento e la serrata geometria della tragedia classica, come lo stesso Paolini ricorda più volte nel corso della serata, scandita dall’inesorabile scorrere delle ore, dalla crescita del livello dell’invaso annotata sulla lavagna di scena, dal rincorrersi delle voci di chi stava su, nel vento e nella pioggia nera di Erto e Casso, o giù, a Longarone, in quel maledetto bar, davanti a quella stessa televisione che trasmetteva la partita della nazionale. Una strage annunciata che, partendo dai primi rilevamenti compiuti dalla SADE negli anni Venti, via via attraverso gli espropri dei poveri terreni sassosi, le denunce inascoltate della senatrice Elsa Merlin, le perizie dei geologi (indimenticabile, nel racconto di Paolini, la figura dell’austriaco Müller e dei suoi impeccabili carotaggi, quelli che denunciano la presenza di una grossa frattura per l’appunto a forma di M) e le mancate verifiche della commissione di collaudo, arriva fino quella fatidica sera del 9 ottobre 1963.
Allora, come si ricorderà, un pezzo del monte Toc (nomina sunt omina in questa storia e anche su questo magistralmente gioca la parola dell’autore-attore) si staccò per la sollecitazione dovuta al riempimento dell’invaso della diga e, precipitando nel lago artificiale, provocò una gigantesca onda di terra e acqua che si riversò a valle, sulla sottostante Longarone, spazzandola letteralmente via. Furono 1.910 i morti, molti dei quali rimasti senza nome o spesso senza corpo, infinito il calvario giudiziario per i sopravvissuti (si susseguono le processi, sentenze e ricorsi del gruppo Enel-Montedison), spesso ridicoli o umilianti i risarcimenti: ora Longarone sorge, interamente ricostruita, un poco oltre; sul luogo del disastro un cimitero muto, un monumento, un piccolo museo, la rabbia di chi resta.
A questa come ad altre storie della sua terra (si vedano per esempio i ritratti di Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e Luigi Meneghello), sempre presente anche nella lingua mista di termini veneti, ha dato voce l’arte povera di Paolini, capace di spostare lo sguardo anche più su, oltre il Brennero, con Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, spettacolo che, trasmesso in diretta dall’ospedale psichiatrico di Milano il 26 gennaio del 2011, racconta Aktion T4 e lo sterminio nazista dei disabili. Ma questa è, semmai, un’altra storia.