LA DATA

6 agosto 1945

«Noi facciamo appello al governo del Giappone affinché proclami immediatamente la resa incondizionata di tutte le forze armate giapponesi e fornisca adeguate garanzie della loro buona fede in tale azione. L’alternativa per il Giappone è la rapida e totale distruzione».

Il tredicesimo e ultimo punto della Dichiarazione di Potsdam sottoscritta da Stati Uniti, Inghilterra e Cina parla in modo chiaro di rapida e totale distruzione per il Giappone, quel che non era detto in modo esplicito è che gli Stati Uniti avevano a disposizione l’atomica, una nuova e terribile arma di distruzione di massa che, alle 8 di mattina del 6 agosto 1945, l’aeronautica militare statunitense sganciò sulla città giapponese di Hiroshima.

Trasportata da un aereo chiamato Enola gay l’ordigno, soprannominato “Little Boy”, causò la morte di circa duecentomila persone, e la distruzione della città. E dato che non era abbastanza, tre giorni dopo, il 9 agosto, fu sganciata una seconda bomba, “Fat Man”, su Nagasaki, che causò la morte di circa ottantamila persone, che sarebbero state molte di più se non ci fosse stato un errore nel lancio.

(Photo by AFP/Getty Images)

Enola Gay, Little Boy, Fat Man. Ma perché dare un nome a una bomba? Perché tutta questa concentrazione su questioni irrilevanti, come il nome dell’aereo? La nominalizzazione è una forma di normalizzazione, di riconoscimento, ed  è un’informazione immancabilmente presente ovunque si parli della bomba di Hiroshima. Sposta l’attenzione dalle vittime e dalle devastanti conseguenze della bomba sulle vite dei sopravvissuti, come se questa enormità fosse, alla fine, ascrivibile alle cose alle quali noi possiamo dare un nome, perché ci sono prossime.

Questo filmato dell’esplosione atomica, nella sua brevità, ne esprime tutta la potenza:

Era veramente necessario usare la bomba atomica perché il Giappone si arrendesse? Non ne era convinto nemmeno Eisenhower, che nelle sue memorie scrisse:

«Nel 1945 il segretario alla guerra Stimson, visitando il mio quartier generale in Germania, mi informò che il nostro governo stava preparandosi a sganciare una bomba atomica sul Giappone. Io fui uno di quelli che sentirono che c’erano diverse ragioni cogenti per mettere in discussione la saggezza di un tale atto. Durante la sua esposizione dei fatti rilevanti fui conscio di un sentimento di depressione e così gli espressi i miei tristi dubbi, prima sulla base della mia convinzione che il Giappone era già sconfitto e che sganciare la bomba era completamente non necessario; e in secondo luogo perché pensavo che il nostro Paese dovesse evitare di sconvolgere l’opinione pubblica mondiale con l’uso di un’arma il cui impiego era, pensavo, non più obbligatorio come misura per salvare vite americane».

Da un’indagine americana effettuata presso civili e militari giapponesi, l’opinione diffusa era che il Giappone si sarebbe arreso senz’altro al più tardi entro la fine del 1945, e lo avrebbe fatto anche se le bombe atomiche non fossero stare sganciate.

Secondo lo scrittore e psicoterapeuta Paolo Miorandi, autore del libro Lessico di Hiroshima, «la bomba di Hiroshima, assieme alle camere a gas, è stato il più grande esperimento di industrializzazione della morte finora condotto sulla Terra. La morte inferta su scala industriale compie un estremo attentato contro la dignità della vita privando l’uomo persino della particolarità della propria morte e diluendo ogni singola morte in un grande indefinito oscuro male. È stato per riprendersi la propria morte che alcuni Hibakusha hanno scelto la via del suicidio […] Due cose tornano con regolarità nelle testimonianze dei sopravvissuti. Che quella mattina del 6 agosto il sole splendeva e il cielo sopra Hiroshima era di un azzurro profondo e che ciò che videro dopo che quello stesso cielo era esploso e la terra si era oscurata supera ogni loro capacità di descrizione. Solo certe antiche rappresentazioni dell’inferno – dicono alcuni – possono vagamente rendere l’idea di come era diventato il mondo».

Scrive il poeta giapponese Hara Tamiki (1905-1951), superstite, morto suicida:

Schegge lucenti e
ceneri bianche sono
come un paesaggio sconfinato.
Il ritmo misterioso dei rossi cadaveri di gente consumata dal fuoco.
È successo davvero? È potuto succedere per davvero?
Il mondo di domani strappato via tutto d’un fiato,
accanto ai vagoni rovesciati del treno
il torso gonfio di un cavallo,
l’odore del fumo che si solleva dai fili elettrici.