IL NUMERO

68

Così cominciò. “The summer of love”, l’estate dell’amore, fiorì all’improvviso nell’estremo west americano, tra San Francisco e Los Angeles, San Diego e la frenetica spiaggia di Venice.

Dopo una lieve corsa sull’Atlantico, la brezza americana s’impigliò poi tra i rami più alti degli Champs Elysèes, vorticò sotto l’arco di trionfo, risalì in risacca i boulevards e sbocciò nel maggio francese, gentile e furioso.

Quanto a noi, cuccioli della frontiera meridionale, occupavamo per la prima volta il vecchio liceo. Il nostro periferico Palazzo d’inverno, con i suoi lunghi corridoi, le aule cavernose, i banchi di legno sbertucciati, il crocefisso e la foto del presidente dietro la cattedra. E fu la nostra prima, personale, avventurosa dissacrazione.

Sembrava una rivoluzione, ed era invece una generazione. Non lo sapevamo ancora, ma anche noi eravamo baby boomers, fratelli dei nostri fratelli della sponda occidentale: quel raccolto umano straordinario generato dal miracolo americano del dopo guerra. Creature della pace, venute al mondo dopo il lungo, tenebroso intermezzo della guerra totale. In definitiva: un atto di coraggio e di incoscienza dei nostri giovani genitori.

Sessantotto: facile dirlo, facile scriverlo, a mezzo secolo di distanza. In una breve stagione, tutto cambiò, e nulla fu più come prima. Il figlio del notaio non volle più essere notaio, la figlia del professore non volle più insegnare, il figlio del bancario non volle più essere bancario, il figlio del dottore… E il figlio dell’operaio, ah quello! non volle più essere avvinghiato alla catena di montaggio.

(AP Photo)

Che tempi, contessa! E che canzoni, e che cortei, e che amori! Eravamo allora tutti innamorati. Leggevamo i libri senza capirli ed eravamo innamorati dei libri, studiavamo la storia nelle assemblee di facoltà, ed eravamo tutti innamorati della storia. Non della storia trascorsa, ma della storia futura, innamorati. E tra di noi, soprattutto, e del nostro tempo eravamo innamorati.

 

La quotidianità, che tanto era stata confortevole per i nostri fratelli maggiori, ci apparve all’improvviso come un’insopportabile camicia di forza. E come ci piacque il ritratto della nostra condizione, nel folgorante anatema di Herbert Marcuse: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà…»

Breve stagione di furori, il Sessantotto era aperto e squadernato davanti ai nostri occhi come quelle crepe abissali che scavano nel suolo i terremoti più violenti: una faglia tra due mondi e tra due tempi che non torneranno più a somigliarsi. Di questo siamo stati testimoni incantati e in gran parte inconsapevoli.

Quello che seguì poi, potete leggerlo nei libri di storia: quella vera, la cronaca del ferro e del fuoco, non quella immaginata nel nostro fragile innamoramento del futuro. Alle nostre latitudini, il disincanto, l’inverno del nostro scontento e l’eterna palude erano in agguato. Ma avevamo allora venti anni, e – nonostante Paul Nizan – quella era davvero «la stagione più bella della nostra vita».

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