DAILY IL NUMERO

75.000
Le pietre d’inciampo

Piccole targhe di ottone, interrate nelle strade o confuse in mezzo ai sampietrini. Sono 75 mila e ricordano al mondo, a ogni passante che le vede, in ogni momento della giornata, l'orrendo crimine delle deportazioni naziste

Le chiamano Stolpersteine, in italiano “pietre d’inciampo”, e costituiscono ormai in ventun Paesi del mondo il più grande esempio di museo diffuso della memoria: 75.000 piccole targhe di ottone della misura di un sampietrino (10 per 10 centimetri), poste davanti alla porta dell’ultima abitazione delle vittime del nazismo o sul luogo in cui furono fatte prigioniere, su cui sono incisi il nome della persona, la data di nascita, quella della deportazione e – qualora si conosca – la data della morte. Il progetto e la sua minuziosa realizzazione si devono all’artista tedesco Gunter Demnig, settantadue anni. L’idea gli venne nel 1990, durante una commemorazione a Colonia dei mille sinti deportati dai nazisti cinquant’anni prima. Di fronte a chi negava con forza l’esistenza di quel crimine, Demnig decise di dedicare il proprio lavoro ad un’opera continua, di forte impatto e – allo stesso tempo – discreta, rispettosa, creando uno strumento formidabile contro l’oblio e il negazionismo. Nel 1994 installò i primi Stolpersteine proprio a Colonia, e senza autorizzazione. Fu l’inizio di un lavoro gigantesco.

Demnig prepara ancor oggi, dopo venticinque anni, ogni singolo Stolperstein e lo interra personalmente, con piena responsabilità. A chi gli chiede se, ormai, ha fatto l’abitudine  a quel gesto quasi rituale, risponde con un velo di tristezza negli occhi chiari, ma con estrema determinazione: «Ogni volta che incido i nomi nell’ottone, lettera dopo lettera, sono sopraffatto dall’orrore. Tuttavia, anche questo fa parte del progetto. Solo così ricordo a me stesso che, dietro quel nome, c’è una persona. Ci sono bambini, uomini e donne che erano magari vicini di casa, compagni di scuola, amici, colleghi. Ogni nome evoca un luogo, il posto dove quelle persone vivevano, a cui i nazisti le hanno strappate, ed è un po’ come se tornassero a casa».

Quello di Gunter è tutto tranne che un monumento. È privo, ad esempio, della verticalità tipica dei soggetti monumentali; per di più, posti sul selciato, gli Stolpersteine hanno bisogno di una distanza ravvicinata per essere notati e osservati, e mettono in luce un aspetto assolutamente inclusivo: le persone ricordate, infatti, sono tutti i deportati, sia per motivi razziali che politici, i militari contrari al regime, i Rom, gli omosessuali. L’artista è convinto che queste pietre piccine parlino più di ogni dichiarazione stentorea: «Credo siano importanti per il nostro futuro – commenta – ma anche per tutti coloro che non hanno ancora un posto dove piangere i propri cari … dice il Talmud che quando il nome di una persona è scritto, la sua memoria non può essere perduta».

La prima posa in Italia di quelle che sono state chiamate “pietre d’inciampo” (forse da un passo della Bibbia e della Lettera di San Paolo ai Romani), come ha suggerito il direttore del Museo di via Tasso al momento in cui il progetto ha preso forma, è stata effettuata a Roma il 28 gennaio 2010: trenta sampietrini dedicati ad ebrei, politici e carabinieri, sono stati installati in cinque Municipi della capitale. Gunter non si più fermato: anche per l’Italia, con regolarità, molte altra città sono state coinvolte nella sua opera. La richiesta di posa delle pietre oggi è ben regolamentata: parte , in genere, dalle famiglie o dagli amici delle vittime (che forniscono i dati biografici essenziali), mentre l’autorizzazione alla posa è fornita dai Municipi, che s’incaricano di tutelarne la permanenza. La scelta in controtendenza di Demnig di non utilizzare il piano verticale, la facciata delle case, bensì di disporre sulla strada le pietre d’inciampo, rende assimilabile la sua opera alle tombe pavimentali, quindi soggette al calpestìo dei passanti. Nessun segno retorico, ma un “inciampo” soprattutto morale; persino un azzardo, una traccia volta a sollecitare il confronto tra individuo e collettività. Un incontro che, talvolta, diviene scontro, opponendo derive razziste e condivisione. Con il suo inevitabile valore semantico di natura politica, il lavoro di Demnig è stato fatto oggetto, ripetutamente e in ogni parte del mondo, di atti vandalici. In Germania, soprattutto all’esordio dell’iniziativa, si svilupparono polemiche perché la gente si sentiva troppo coinvolta dai crimini passati per doverli ricordare ogni giorno; a Colonia, in particolare, alcune pietre furono posate ben lontane dai portoni d’ingresso, a bordo marciapiede. In Italia, ancor oggi, si preferisce rubarle o lesionarle: è tristemente noto il caso del farmacista romano, reo confesso di averle asportate al numero 67 di via Santa Maria di Monticelli, perché gli davano banalmente “fastidio”. Sempre a Roma, nel dicembre 2018, sono state rubate venti pietre d’inciampo posate in via Madonna dei Monti, poi reinstallate lo scorso 15 gennaio: «Tutto questo non mi ferma – sostiene Demnig – perché sono infinitamente di più le pietre che posiamo di quelle che vengono rovinate, e che saranno comunque riparate e rimesse in sede. Ne sono state rubate finora circa ottocento, contro le oltre settantamila che abbiamo installato. Saranno sempre di più …». Come in un puzzle, tessere di memoria condivisa.