IL NUMERO

8/25

Sono 25 i dischi registrati in studio da David Bowie, non contando i due LP con il gruppo Tin Machine: è lo stesso Bowie, in una lettera scritta a Brian Eno qualche mese prima di morire, a citare Blackstar – l’album al quale stava lavorando – come il suo venticinquesimo disco; una produzione discografica che inizia nel 1967, quando ha solo vent’anni.

Per non far troppo torto al Duca Bianco, sarà un 25 a puntate: 8 su 25 è già un bel numero.

Il primo album si intitola semplicemente David Bowie ed è molto anni Sessanta, ancora lontano dalla cifra stilistica che lo caratterizzerà nei dischi successivi e che rimarrà riconoscibile nonostante il suo bisogno di sperimentarsi continuamente. Il disco successivo invece, Space Oddity, anticipato dal 45 giri omonimo uscito a luglio del ’69 che sarà il suo singolo più venduto nel Regno Unito, avrà ottime recensioni: «È più che un disco. È un’esperienza. Un’espressione della vita come gli altri la vedono. I testi sono pieni della grandeur di ieri, dell’immediatezza di oggi e della frivolezza di domani», scrive la rivista Music Now! nel novembre 1969, quando l’album esce alla ribalta. Senz’altro Space Oddity è entrata a pieno titolo nell’immaginario collettivo: chi non conosce il verso iniziale «Ground control to Major Tom»? Chi non ricorda il count down che lo struttura?

Fra le canzoni di Space Oddity c’è una vera perla poetica, è Cygnet Committee, che comincia così:

«I bless you madly, sadly as I tie my shoes / I love you badly, Just in time, at times, I guess / Because of you I need to rest
Because it’s you that sets the test» e, quando arriva al ritornello: «And I Want to Believe / In the madness that calls ‘Now’ /
And I want to Believe /That a light’s shining through Somehow».

Nel disco successivo, The Man who sold the world, la vena poetica strizza l’occhio al vecchio Bob (Dylan, of course), batteria e chitarre si inaspriscono, è arrivato Mick Ronson; Bowie, che spesso ha guardato più dentro che fuori, forse per la consapevolezza di quanto lontani da lui fossero alcuni problemi del mondo, qui affronta temi complessi e lo fa da maestro, come nella bellissima All The Madmen. Siamo al 1970, ed è già al secondo disco d’oro in Inghilterra; per l’album successivo Hunky Dory, uscito nel 1971, il riconoscimento sarà addirittura di platino. Wikipedia ci informa che «Hunky Dory si trova al 108º posto nella lista dei 500 migliori album della rivista Rolling Stone,al 3º posto in quella di New Musical Express, al 7º posto nella “All Time Top 100” di Melody Maker e al 25º posto nella classifica dei migliori album di sempre della rivista Mojo». Con Hunky Dory comincia anche il gusto di Bowie per la fusione tra musica e messa in scena, canzone e sua  teatralizzazione, cosa che continuerà almeno fino al 1977, con l’album “berlinese” Low. Insieme a Changes, la canzone più famosa di questo disco è sicuramente Life On Mars; la versione qui sotto, a chiusura del cerchio, è l’ultima volta che Bowie l’ha cantata, nella sua ultima esibizione.

Ed eccoci al numero cinque, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, per gli amici solo Ziggy Stardust. Con quest’album del 1972 David Bowie conquista l’America, che già aveva conquistato lui poco tempo prima. Da ora in poi i suoi dischi precedenti avranno, oltre al gradimento dei critici, anche un gran successo di pubblico: tocca sempre piacere prima agli americani. Oltre a due dischi di platino nel Regno Unito, Ziggy conquista anche il primo disco di platino in America: si parla di 7,5 milioni di copie vendute, per un album che ha lasciato un segno indelebile nella cultura musicale di tutti i tempi attraverso canzoni come Five Years, StarmanLady StardustZiggy Stardust Rock ‘n’ Roll Suicide.

Il numero sei e il numero sette escono entrambi nel ’73, anno fecondo: sono Aladdin Sane, album di contaminazioni musicali – una cosa che a Bowie piacerà sempre tantissimo – e Pin Ups, un disco di cover che sarà fra i suoi dischi preferiti: «sono tutti i brani che hanno significato davvero molto per me… Sono tutte le band che andavo a sentire al Marquee tra il 1964 e il 1967… Era la mia Londra di quel tempo».

Time è la canzone da non perdere in Aladdin Sane, che con 4,6 milioni di copie vendute è uno maggiori successi commerciali del cantante, arriva in cima alle classifiche nel Regno Unito – ed è per la prima volta – e pure nella top 20 statunitense.

Il disco numero otto, uscito nel 1974, è Diamond Dogs, disco d’oro sia in Inghilterra che negli USA. Le chitarre non mancano, l’atmosfera vagamente apocalittica neppure; alcune canzoni che contiene erano nate per un lavoro teatrale su 1984 di Orwell, progetto mai giunto a destinazione per problemi con i diritti dell’autore.

Capita che qualche numero possa prendere la mano, e negare la sintesi delle proprie cifre con un fiume di parole: così siamo a 8 su 25, e restano almeno due puntate successive per arrivare a destinazione.

To be continued…(direbbe così anche Bowie).