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Note dal Festival dei Matti 2018, a 40 anni dalla Legge Basaglia

Le parole di Franco Rotelli – uno dei principali protagonisti della riforma psichiatrica di Franco Basaglia e suo stretto collaboratore, prima all’ospedale di Parma e poi a Trieste – sono risuonate, ferme e dirette, nel foyer del Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia, durante la nona edizione del Festival dei Matti che si è appena conclusa: «Il Festival, noi qui, assieme, siamo la prosecuzione di una pratica che Basaglia avrebbe approvato. Non una glorificazione, non la celebrazione di un anniversario. Non abbiamo niente da celebrare, abbiamo semplicemente da fare».

La puntualizzazione di Rotelli appare più che mai appropriata e rappresenta in pieno lo spirito – a suo modo eversivo, di ricerca seria e riflessioni concrete – che l’equipaggio del Festival ha costantemente seguito in questi anni nel cucire insieme gli elementi della kermesse: con equilibrio e libertà, affiancando proposte di dibattito con addetti ai lavori e presentazioni di libri, incontri con la cittadinanza (soprattutto i ragazzi) e spettacoli teatrali, film e musica. L’iniziativa, ideata e curata da Anna Poma (psicoterapeuta, che dal 1998 opera nel campo della salute mentale, referente per il Veneto del comitato StopOpg) è prodotta dalla Cooperativa Con-tatto. Del comitato scientifico fanno parte, inoltre, Giovanna Del Giudice, Gianni Montieri, Franco Nube e Gianfranco Rizzetto. Un evento autogestito che è divenuto, nel corso degli anni, un appuntamento ineludibile nella primavera veneziana, soprattutto in tempi di appiattimento culturale, di oscurantismi di ritorno. L’edizione 2018, poi, ha rappresentato un unicum per la ricchezza e l’originalità delle proposte, in un anno – il quarantennale dell’emanazione della legge Basaglia, con cui si stabiliva la chiusura dei manicomi in favore di servizi interamente extraospedalieri – fin troppo carico di esposizione mediatica, spesso strumentalizzata.

Tuttavia, se gli anniversari servono (ad esempio a far ripubblicare il corpus delle opere basagliane, per i tipi de Il Saggiatore, Baldini&Castoldi e Raffaello Cortina editore), non eliminano ancora la necessità di … E tu slegalo subito, la campagna nazionale per l’abolizione della contenzione, promossa dal Forum Salute Mentale. Così si scopre che, a quattro decenni dal quel maggio 1978, la contenzione si nasconde ancora nei luoghi della cura. La marginalizzazione continua ad esistere ed è, talvolta, pesantemente stigmatizzata. Qualche volta, quando la situazione si tramuta in tragedia, tutto ciò emerge: nel 2009, Francesco Mastrogiovanni muore nel Servizio psichiatrico di Vallo della Lucania (SA), dopo giorni e giorni trascorsi legato al letto. Tre anni prima è successo a Giuseppe Casu, all’ospedale “Santissima Trinità” di Cagliari.  Stridente risulta la contraddizione tra l’insegnamento di Basaglia e la chiusura, la regressione identificata in questi casi: «È abbastanza dura – ha commentato Rotelli – perché la repressione ideologica è a portata di mano, le logiche di esclusione sempre immanenti e la farmacologizzazione dei problemi appare ancora la via più semplice».

Lo stesso Basaglia, nella concretizzazione del suo progetto, non indulgeva del resto a toni consolatori: «La speranza è un falso profeta –sosteneva in una conversazione radiofonica con Ernesto Balducci ancora nel 1977 – soltanto nella lotta noi possiamo pensare di cambiare qualcosa di reale, ma in una lotta nella quale sia possibile intravvedere quello che è il futuro». «Le peculiarità del pensiero basagliano sono azione e determinazione – ha aggiunto Rotelli – lo hanno definito un uomo di pensiero, e lo era, ma con la forza d’immaginare il cambiamento delle istituzioni. La sua – ha concluso – è stata una rivoluzione politica, non solo culturale».

La sfida è stata raccolta, nel tema stesso del Festival dei Matti 2018, A margine. Abitare luoghi comuni: divisione e inclusione, separatezza, abitare o disabitare un mondo che pone ancora limiti, decreta confini e stabilisce differenze. Questioni di diaspore e sradicamenti. Il “luogo comune” del pregiudizio, lo spingere “fuorigioco” chi non risponde alle regole, e il luogo comune dell’aver cura insieme, del condividere, perché sia possibile abitare il dentro e il fuori, garantendo a pieno titolo la cittadinanza.

Bellissime, in tal senso, le testimonianze dello psichiatra Carlo Minervini e dello psicoterapeuta Riccardo Ierna, entrambi operatori del Centro Marco Cavallo di Latiano (Brindisi), una realtà che si definisce Centro Sperimentale Pubblico per la Salute Mentale di Comunità: «Il Marco Cavallo non è un luogo sanitario – ha chiarito Minervini – ma un luogo sociale. La nostra è una pratica del “corpo vivo”, un’osmosi tra comunità di persone con disagio psichico e vita comune di tutta la cittadinanza. Consiste – prosegue – nel principio secondo cui le persone con disagio psichico sono cittadini a tutti gli effetti e, come tali, parte della società. Ricordo ancora quando ci diedero le chiavi della nostra sede comune, un bel palazzo nel cuore di Latiano … quando vedemmo la scalinata di accesso, con le sue volte a botte, ci tornò alla memoria la pancia piena d’idee del Marco Cavallo di Trieste. Allora facemmo fare, per tutti, una copia delle chiavi». «I servizi – ha aggiunto Ierna – dovrebbero essere transitabili da tutti. In questo noi siamo un “antimodello”, perché esercitiamo un lavoro continuo di rimessa in discussione quotidiana. Significa farsi contaminare da tante possibilità, significa soprattutto tentare, azzardare la meravigliosa impresa di far esistere un sociale».

Nella cornice del parco di Villa Groggia, ai bordi della laguna, le storie si sono moltiplicate nell’ultima giornata del Festival: l’esperienza di Gisella Trincas, presidente  dell’Unisam (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) che ha contribuito a creare il progetto di Casamatta in Sardegna, a partire dalla propria difficile esperienza con la sorella; la vicenda della cooperativa La fabbrica di Olinda, una struttura autonoma nata dalle ceneri dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, che ha scelto di realizzare un « progetto della città e non della psichiatria – come ha raccontato lo psichiatra svizzero Thomas Emmenegger che della struttura è presidente –. Ci hanno chiesto di trasformare l’ospedale in una comunità terapeutica, ma non avevamo intenzione di ricreare un ghetto. No, abbiamo risposto, facciamo invece un ostello, un’impresa che, oltre al sociale, badi anche all’economia. Un posto dove soggiornare, frequentare corsi, mangiare bene. Un posto di liberi orti, laboratori di teatro. In breve – ha concluso – un posto per relazionarsi. Perché la libertà sta nel decostruire i ruoli, da professionisti istituzionalizzati a persone che lavorano con altre persone. La libertà è un esercizio quotidiano».

La stessa libertà, viene da pensare, di chi ha aperto il cancello dell’ospedale psichiatrico di Trieste e portato a spasso per la città, in una domenica di marzo del 1973, un grande cavallo azzurro di legno e cartapesta. La stessa del laboratorio di Teatro/Danza Tanto scappo lo stesso, tratto dall’omonimo libro di Alice Banfi edito nel 2008 da Stampa Alternativa, che il regista veneziano Mattia Berto – direttore artistico del Teatrino Groggia – ha organizzato per il Festival dei Matti di quest’anno con la ballerina Serena Ballarin. Atto liberatorio, riconquista di spazi vitali, abbandono di ogni costrizione: il risultato è stato uno spettacolo impegnativo, per riflettere sui limiti che troppo spesso ci si pone, ma affrontato con la leggerezza di chi crede nelle potenzialità del singolo e dei gruppi. Nella stessa sede (il luogo è un autentico gioiello nella pericolosa decrescita dei teatri veneziani), a conclusione del Festival, è stato messo in scena Letizia Forever, testo e regia di Rosario Palazzolo, con Salvatore Nocera ad interpretare – gambe nude in pantofole rosa, capelli legati e barba incolta – il personaggio di Letizia, donna esilarante e tragica ad un tempo, che racconta un’esistenza fatta di soprusi, ignoranza e stupefacenti salti emotivi. Distonica, irriverente, problematica.

Alice Banfi

La bellezza della manifestazione veneziana sta, probabilmente, anche nell’autonomia delle scelte programmatiche: un film importante, Padiglione 25. Diario degli infermieri (2016) di Massimiliano Carboni, ha inaugurato il Festival a Ca’ Foscari CFZ, Cultural Flow Zone, rievocando la storia dell’autogestione messa in atto nel 1975 dal personale infermieristico dell’Istituto Manicomiale Santa Maria della Pietà di Roma. Degno di nota anche il pomeriggio al Teatrino di Palazzo Grassi, dedicato alla scrittrice di etnia jenisch Mariella Mehr, con la proiezione di Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini (stupenda la prova attoriale di Federica Rosellini): un modo per allargare il concetto di marginalità e la discussione sulla differenza razziale, sulla segregazione, ancora una volta sul porre muri. Perché la vicenda degli Jenisch nella Confederazione Elvetica e del programma eugenetico Enfants de la grand-route (in tedesco Kinder der Landstrasse) che ha coinvolto anche la Mehr e che prevedeva sottrazioni parentali, sterilizzazioni, elettroshock e terapie chimiche nei confronti di vittime indifese, è un versante ancor troppo poco conosciuto dell’essere al margine, pur essendo vicinissimo nel tempo e nello spazio (è stato attuato fino al 1974 e solo nel 1986 il Presidente svizzero ha chiesto pubblicamente scusa agli Jenisch).

Storie vicine e che fanno indignare, come la tragedia di Antonia, ripercorsa in un bel libro, Storia di Antonia. Viaggio al termine del manicomio (edito da Sensibili alle foglie, 2017) di Antonio Esposito e Dario Stefano Dell’Aquila che è stato presentato al Festival, suscitando un dibattito appassionato sullo stato dei Dipartimenti di Salute Mentale in Italia. Alla sua storia – Antonia è morta nel letto di contenzione, a cui era legata da ormai quarantatré giorni nell’ospedale psichiatrico di Pozzuoli nel 1974 – è stata contrapposta quella della follia vista con gli occhi di un bambino, in La trappola del fuorigioco di Carlo Miccio (Alphabeta Verga, 2017).

Fondamentale la testimonianza della psichiatra Giovanna Del Giudice (presidente di ConfBasaglia), che è stata giovanissima collaboratrice di Basaglia, quando ha raccontato l’esercizio della pratica, messa a confronto con le domande, intelligenti e scomode, degli studenti del Liceo Marco Foscarini di Venezia: chi è il matto, davvero? Come si fa a distinguere? Soprattutto, cosa dobbiamo distinguere? «Sono questioni grandi – ha commentato Del Giudice – quello che ci è stato insegnato, in quell’esperienza, è stato mettere in atto pratiche che avessero a che fare con le persone e non con le definizioni mediche, contro ogni stigma. Sapete cosa ha fatto Basaglia, per prima cosa? Ci ha detto di slegarli tutti, i pazienti, e poi ha previsto un comodino per ogni posto letto … ».

Il Festival dei Matti, pensieri liberati che escono anche da un comodino: abitare i luoghi e non esserne abitati, ristabilire la dignità. Al Parco Basaglia di Gorizia, ha raccontato Giuseppina Scavuzzo, architetto, docente all’Università di Trieste che ha partecipato al progetto di riutilizzo ragionato dell’area, le “stanze del desiderio” prendono il posto dei camerini di contenzione: «L’ex ospedale psichiatrico di Gorizia – ha commentato – con la sua storia, non è solo l’ambito in cui esercitare la forma del progetto; è piuttosto un giacimento culturale di pensiero critico, da cui emergono alcuni nuclei fondamentali: l’identità (dell’architettura e di chi la abita), il limite (in senso materiale e immateriale) e la memoria». Il racconto riporta alla storia di Carla, sopravvissuta ad Auschwitz per finire internata nel manicomio di Gorizia: a quel destino, alla sua struggente marginalità, i progettisti dell’Università di Trieste hanno voluto dedicare un edificio e una zona del Parco, appunto la casa di Carla. Finalmente una casa, per chi c’è e per chi viene cacciato dai luoghi del vivere comune: per Carmen Pellegrino, storica, abbandonologa (neologismo riconosciuto dalla Treccani per identificare chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati), autrice di due romanzi, Cade la terra (2015) e il più recente Se mi tornassi questa sera accanto (2017), entrambi editi da Giunti, esiste una poetica del luogo da riabitare. Bisogna aver cura di quella marginalità, perché racconta le radici, perché è anch’esso un segno sociale, affettivo e politico, che ci aiuta a capire il presente e i suoi disagi.

Il senso combattente del Festival, con lucidità, passa anche per l’irrinunciabile porta del linguaggio: non esiste barriera che lo scambio linguistico non possa abbattere, hanno chiarito – a colloquio con Gianni Montieri – Giordano Meacci (scrittore e conduttore de La lingua batte su Rai Radio 3) e Tiziano Scarpa, anch’egli autore di fama (al suo attivo titoli come Stabat Mater del 2009 e Il cipiglio del gufo, 2018, entrambi editi da Einaudi). Oppure, per evidenziare la contraddizione in termini del “luogo comune”, si è cercato l’incontro con un artista visivo, Flavio Favelli (che abita, peraltro, in un luogo piccolo e difficile da raggiungere, che definisce felicemente una dimensione appenninico-partigiana) e con un antropologo, Franco La Cecla, che nei suoi lavori ha spesso ripreso il tema dell’organizzazione dello spazio contemporaneo, tra localismo e globalizzazione, rivolgendosi ai confini tra le culture. Anche i due eventi musicali della kermesse veneziana sono stati pensati come presa di coscienza, e non semplice cornice. Il primo, un concerto-reading di poesia nel Chiostro We_Crociferi in cui si sono alternate, intrecciate, abbracciate la cantautrice Cristina Donà e la poeta Anna Toscano, ha posto con levità luminosa questioni fondanti: che cosa accadrebbe se cambiassimo finalmente prospettiva? Se intuissimo il margine come una risorsa? Poi, esiste un senso assoluto delle cose, oppure ciascuno lo può trovare per strade diverse, con parole silenziose? Dal canto suo, Michele Gazich – poeta, violinista, docente di origini istriane – intervenuto al Teatrino di Palazzo Grassi con l’accompagnamento del chitarrista Marco Lamberti, ha raccontato il progetto Waterlines (Residenze letterarie e artistiche a Venezia, organizzato da Fondazione di Venezia, Collegio Internazionale dell’Università Ca’ Foscari e San Servolo srl) a cui ha partecipato nell’ottobre dello scorso anno, trascorrendo un mese nell’Isola di San Servolo. Lì, in quella che era la sede dell’Ospedale Psichiatrico veneziano, in cui si conserva ancora l’archivio, e che oggi ospita la Fondazione Franco e Franca Basaglia, Gazich ha trovato spunto per un nuovo lavoro, di cui ha presentato in anteprima alcuni pezzi. Tra tutti, uno, voce chitarra e violino, a narrare i sogni di Alice, un’internata di San Servolo: corde e corridoi ora volano nel cielo, felici … Infine un monito, cantato a voce alta per il pubblico, e soprattutto per chi non c’era, perché si sentisse oltreVivere / scrivere / cicatrizzare l’odio

Le buone cose restano, anche quando finiscono. Come ha commentato Franco Rotelli: «La storia che Basaglia rappresenta è come un fiume carsico, sparisce per poi ricomparire là dove meno te lo aspetti». Forse oggi il fiume siamo tutti noi, e abbiamo da fare, fino al prossimo Festival dei Matti, e oltre.