Ogni giorno avremmo dovuto abbracciarla, questa donna brusca e dolcissima, fragile come è fragile l’amore disarmato. Ogni giorno per ventiquattro anni: noi, fratelli più grandi di Ilaria e figli maggiori di Giorgio e Luciana, noi che siamo invecchiati con questo dolore condiviso. Ora che tutto è finito, ricordiamo i suoi smarrimenti, lo scoramento, le sue stanchezze degli ultimi tempi, e insieme riconosciamo quel lampo di invincibile protesta negli occhi.
Ora che tutto è finito, possiamo dirlo senza timore di farle male: Luciana Alpi, nata per condividere l’amore della figlia, degli amici e delle persone gentili, dopo la morte di Ilaria è stata condannata a conoscere da vicino, a sfiorare con disgusto, ad ascoltare con ribrezzo un esercito di esseri umani spregevoli: il burocrate ottuso, il politico falso, il giudice tremebondo, il militare bugiardo, l’avvocato fellone, il razzista di complemento.
Tutti questi mostri ha dovuto affrontare, prima con Giorgio e poi da sola, Luciana Alpi. A tutti questi mostri e per tutti questi anni ha opposto la forza di chi cerca la nuda verità, non la miserabile verità posticcia degli scartafacci, delle prove manipolate, della calunnia e dei testimoni ammaestrati.
Hashi Omar Hassan, il somalo accusato ingiustamente e rinchiuso in carcere per 17 anni perché «gli italiani avevano fretta di chiudere il caso», la chiamava mamma. Luciana lo andava a trovare in cella: in cella, insieme, la madre della vittima e l’uomo accusato dell’omicidio! Eppure, sarebbe stato facile arrendersi, riversare il proprio odio sul simulacro dell’assassino. Il dolore si sarebbe finalmente placato. Ecco, dicevano a Luciana i cattivi consiglieri: ti abbiamo dato il colpevole, non sei contenta? Non ti arrendi ancora, cosa vuoi di più? Non sei stanca?
Luciana era stanca, e a noi – a quelli di noi che le sono stati più vicini – non lo nascondeva. Come quando disse basta al Premio giornalistico in memoria di Ilaria, che per anni aveva accompagnato la sua battaglia. Era forse per lei il momento del silenzio, e fu anche per noi il momento del silenzio. Così: basta premi, basta discorsi, basta anniversari. C’è solo un lutto terribile da rispettare, una ingiustizia insopportabile e soprattutto una verità che deve infine trionfare.
Le parole giornalistiche spesso sono gusci vuoti. Come è vuota, quando la leggiamo sui giornali, la parola “misteri italiani”! Conoscere Luciana Alpi ha significato per noi dare carne e sangue a questa formula sterile. C’è una vittima senza giustizia, e c’è il dolore senza rimedio di una madre. Una ferita delle persone e della Nazione. Così deve essere per la madre di Giulio Regeni, così deve essere per la famiglia e la sorella di Stefano Cucchi, così deve essere per i figli dei morti di Ustica. Carne e sangue, e non parole a vanvera, indignazione e non riti consolatori. Se c’è un paradiso dei giusti, verso questo paradiso accompagneremo Luciana Alpi.