LA PAROLA

Alienazione

Ha un significato giuridico ed uno filosofico – e, a onor del vero, uno anche psichiatrico, benché l’Enciclopedia Treccani, ma forse a ragion veduta non lo riporti – la parola alienazione, che qui viene scelta in occasione della serata di mercoledì 13 marzo intitolata La pace dei mondi e dedicata alla Guerra dei Mondi, quella di Herbert George Wells e all’adattamento radiofonico di Orson Welles di cui recentemente TESSERE ha pubblicato le rispettive traduzioni.

Serata nella quale l’alieno – marziano o subsahariano che sia, di fede uno o fede due a suo piacimento – calerà finalmente sulla Terra, ad indicarci, magari come faceva nel 1978 l’Extraterrestre di Eugenio Finardi, come ripensare ad una decisione presa e invertir magari la tendenza a una strada intrapresa che porta dritto all’inferno.

Che è, nel primo caso, il trasferimento del diritto di proprietà da un soggetto a un altro di un determinato bene. La casa che viene venduta al miglior acquirente è “alienata”. Ovvio che, per intenderla ed accettarla in quest’accezione, indispensabile è prima dar credito all’esistenza del diritto di proprietà, al fatto cioè di stabilire che questo sia mio o questo sia tuo e, terminata la transazione, le cose non stiano più come prima.

Su questa variante “leguleia” del termine non ci si sofferma, dando maggior spazio alla definizione che ne da l’“amor di sapere” (questo e nient’altro vuol dire la parola filosofia), senza tuttavia riportare qui per intero quanto sintetizzato nella seconda parte della voce Treccani, ove di primo acchito si legge: «Processo per cui ciò che originariamente appartiene all’uomo ed è opera sua gli diviene alieno o estraneo, finendo, da ultimo, con il dominarlo e asservirlo».

I corsivi riportati nel virgolettato sono di chi scrive perché non è di poco conto evidenziare che il suddetto “diritto di proprietà”, la facoltà ovvero di “avere” (e non di “essere”, che sono i due verbi ausiliari intorno ai quali si è acutamente scervellato Erich Fromm) vien qui attribuito a chi ha progettato, ideato o prodotto quel bene: il possesso, insomma, ha a che fare con l’“opera sua”, con l’esserne artefice, autore, produttore, non arrogante detentore dell’imperio pattuito per legge a chi versa il miglior prezzo.

Perché quei due realistici verbi impiegati dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana – dominarlo e asservirlo– la dicono lunga sul pasticcio che, patteggiando col diavolo come Adrian Leverkhün, Hendrik Höfgen o Dorian Gray, innesca l’“apprendista stregone”: sì, proprio quello di Walt Disney sulle note di Paul Dukas, niente di più del nostro autoritratto, del nostro “selfie” se preferite.

“Alienare” – cioè prendere per sé – quanto è “opera altrui”, o anche dar ad altri quant’è “opera propria” (svendendosi, prostituendosi, spegnendo la luce della morale) conduce ad essere dominati e asserviti – prima ancora di dominare e asservire, prima ancora di essere dominanti, dominatori, padroni –, ma più che altro a sentirsi alienio estranei.

Attenti, non a sentir la presenza di altri – come ormai sembra far chiunque in preda ad un psicologicamente inteso stato di “alienazione” – alieni o estranei, quanto se stessi alieni o estranei, esclusi noi da una società entro la quale fino al giorno prima si era noi ad escludere, come se l’intero mondo d’intorno d’un tratto si fosse ritratto e ci avesse lasciato nella suicidaria desolazione magistralmente narrata da Guido Morselli in Dissipatio H.G..

Chi si sente alieno o estraneo, spiega il Vocabolario Treccani alla voce alienato – che con l’alienazione qualche relazione, è evidente, ce l’ha – è in fin dei conto un “malato di mente” – il pazzo un tempo recluso nei manicomi smantellati da Basaglia – ma, prima di ciò, è il bene «che è stato oggetto di alienazione», non chi compra o con chi vende, ma quanto viene venduto o comprato. Questo nel linguaggio giuridico, mentre in quello filosofico l’alienato è l’individuo «reso estraneo, ridotto a cosa o natura, senza libertà».

È l’essere umano – uno di quei quasi 8 miliardi presenti sul pianeta – lontano da sé stesso e dalla comunità a cui appartiene (perché escluso o esclusosi), privo di libertà ovvero privo della possibilità di decidere delle proprie sorti e di esercitare i dettati della propria (per quanto confusa) volontà, il basamento di tutte le altre libertà che ci spettano.

Dell’argomento se ne sono occupati, con punti di vista assai differenti, Rousseau, Hegel, Feuerbach e Karl Marx. E quest’ultimo l’ha fatto avendo a cuore quella cosa che banalmente dovrebbe servirci a dignitosamente sopravvivere – il lavoro –, bene sempre più prezioso da un lato e sempre più “cheap” dall’altro. Il filosofo di Treviri, autore tra l’altro dell’impronunciabile Manifesto del partito comunista, mise a nudo i meccanismi di un mondo pieno di cose da comprare, un immenso centro commerciale che pullula di un’umanità sfinita dalle ore trascorse nei campi e in officina. Eccoli lì gli uni dinanzi agli altri, da una parte i beni di consumo, le merci, i manufatti, dall’altro gli individui che vanno a comprarli dopo averli prodotti col sudore della propria fronte. Tutto il lavoro occorso per riempire il bazar di quegli oggetti luccicanti è un immenso oceano indistinto di braccia che hanno sollevato, dita che hanno stretto, gambe che hanno trottato. Un vero e proprio mondo capovolto, anzi due mondi contrapposti: quello delle cose animate, almeno apparentemente, di vita propria, personificate; e dall’altra il mondo dei soggetti umani, “reificato”, ridotto cioè a rapporti tra cose. L’alienazione per Marx sta proprio in quella massa indistinta di lavoro messo in vendita in cambio di un salario concesso da un pugno sempre più piccolo di pochi individui che da quel lavoro traggono profitti sempre più grandi e accumulano ricchezze sempre maggiori. L’alienazione, spiega, sta nello scambio tra capitale e lavoro, con il capitale che appare assoggettare e soggiogare a sé ciò da cui deriva – perché esso stesso è un prodotto del lavoro – e il lavoratore che diventa una semplice appendice di quanto egli stesso ha prodotto. Questo rapporto capovolto è chiamato da Marx il “feticismo delle merci”.

Molti altri autori dopo di lui – Lukács in particolare, gli esistenzialisti ancorché senza impiegare espressamente il termine, e poi l’Heidegger dell’“esistenza inautentica” e tutta la scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e Marcuse) – sono tornati sull’alienazione, sull’estraniarsi dell’individuo, sull’anonima quotidianità, incrociando gli abissi che intanto la psicanalisi aveva ampiamente indagato.

Era morto – biologicamente morto, non goffamente “assassinato” come si tenta di fare ancor oggi – da soli 14 anni Karl Marx quando Herbert George Wells gli alieni – esseri strani di cui aver paura, ma anche ammirazione – li fece sbarcare da Marte, e da allora i lunatici, i marziani, gli alienati decisi a non esserlo entrano ed escono dai manicomi, chiusi o aperti che siano. Gli altri stanno a guardare, magari facendo finta di non vedere.