LA PAROLA

Ambaradan

Correva l’anno 1936, esattamente tra il 10 e il 15 febbraio, quando le truppe dell’esercito italiano si scontrarono con quelle etiopi sul massiccio dell’Amba Aradam, 500 chilometri a nord di Addis Abeba. Una battaglia confusa e caotica, che si concluse con la vittoria degli italiani solo grazie all’uso di armi chimiche: gas iprite, proiettili all’arsina e al fosfogene. L’esercito etiope, infatti, forte di una tradizione millenaria al servizio di un impero ricco di storia e cultura, tenne testa alle arraffazzonate truppe italiane, composte di soldati regolari, camice nere e mercenari. Tra morti e feriti nella battaglia, secondo quanto comunicato dallo stesso Badoglio, da parte italiana si contarono 36 ufficiali, 621 soldati italiani, 143 soldati indigeni, mentre dalla parte etiope, caddero in 20 mila. Una strage, tanto che si parlò di un vero e proprio genocidio, una violazione della Convenzione di Ginevra del 1928, poiché il gas utilizzato porta alla morte tra disumane sofferenze. Per inciso, l’Italia ha riconosciuto le proprie colpe e ammesso l’uso di armi chimiche in Etiopia solo nel 1996, grazie alla desecretazione degli archivi.

Da questo episodio terribile, è nata una parola che si usa in tono scherzoso (sic!): ambaradan appunto, crasi tra Amba e Aradam con la storpiatura fonetica della “m” finale in “n”, con il significato di confusione, baraonda, caos, casino, impresa complessa. Del resto nei cinque giorni di battaglia sull’altopiano etiope, successe di tutto. Gli italiani si allearono con alcune tribù mercenarie, che in quanto tali passavano da una fazione all’altra a seconda di chi pagava di più, finché non fu praticamente impossibile capire chi combatteva contro chi. Un ambaradan, appunto, una situazione assurda e grottesca con risvolti paradossalmente comici, se non si fosse trattato di una guerra sanguinosa e di una battaglia combattuta con armi impari.

Un po’ come è successo con l’espressione “fare un quarantotto”, creare scompiglio e confusione, che trae origine dai moti risorgimentali del 1848 in Europa.

Furono gli stessi soldati italiani, al ritorno in patria, a utilizzare ambaradan per indicare situazioni caotiche e disordinate, decontestualizzando la parola dalla sua drammatica origine. Del resto, come si legge sul sito Unaparolaalgiorno, «perché ad Amba Aradam, pure in tutta la confusione di una battaglia particolarmente confusa, gli Italiani hanno “vinto”, come si suole dire. E questa parola è nata in un momento storico in cui colonizzare popoli poveri e liberi con gli aerei e i gas vescicanti, in un caos di su e giù dai monti inseguendo le colonne in fuga con la mitraglia, era un affare da spanciarsi dalle risa. Sì, gli eccidi fascisti avevano sempre un che di ridanciano e gli eroi adusi all’esercizio della forza nelle terre delle faccette nere avevano sempre maschi profili da latin lover, italianamente allegri. Così, oggi, l’ambaradan nel nostro orecchio non dovrebbe essere scherzoso né simpatico – nemmeno un po’ – ma l’oblio dei suoi infami natali ce lo rende vergine. E, quindi, vale usare il bel suono del nome di un altipiano lontanissimo per dire casino».