LA PAROLA

Angoscia

Ci sono diverse definizioni di angoscia. Che cosa è?

Per conoscerla è preferibile rivolgersi alla filosofia, alla psicoanalisi, alla psicologia analitica, alla psicologia tout court o alla psichiatria?

Tutti questi ambiti si contendono il termine con varianti di significato particolarmente marcate.

In una cosa tutte le teorie sono d’accordo e cioè che l’angoscia è uno stato doloroso cosciente di sofferenza spirituale, psichica e fisica, di totale smarrimento, caratterizzato da intensi sentimenti di ansietà e timore diffuso, da vissuti di insicurezza e paura; un’afflizione accompagnata da manifestazioni somatiche di varia natura e intensità.

È simile alla paura, ma ne differisce; non è infatti associata a un qualche timore per un pericolo preciso, ad una apprensione per una minaccia imminente e facilmente riconoscibile. Questa indeterminatezza le ha fatto guadagnare la definizione di “terrore senza nome”.

È simile all’ansia, ma indica uno stato dell’animo ben più intenso, grave, profondo e soprattutto generalizzato. Basti pensare che gli aggettivi che con maggior frequenza l’accompagnano sono: acuta, intensa, sconvolgente, lancinante, catastrofica…

È localizzata nel corpo, un acuto tormento dato da una preoccupazione per qualcosa di non ben definibile che si traduce sul versante fisico in un fortissimo senso di soffocamento, difficoltà di respiro, oppressione, costrizione, malessere diffuso, agitazione, cardiopalma… Si accompagna a molte malattie psichiatriche e alle nevrosi.

La sua etimologia viene dal latino augere, cioè stringere, verbo in cui già è insita tutta la spiacevolezza psico-fisica di questa apprensione disperante da cui deriva un minaccioso senso di annientamento e una penosa paura di dissoluzione.

Sono sinonimi d’angoscia: angustia, tormento, travaglio, pena, affanno, cruccio, dolore, tribolazione, strazio, afflizione, apprensione, patema, assillo, patimento, disperazione, accoramento, inquietudine, dubbiosa incertezza…

Non è un concetto sconosciuto all’antichità.

Nel cristianesimo acquista un significato metafisico non solo con la passione del Cristo, ma anche in episodi come l’orto del Getsemani in cui appare la consapevolezza dolorosa di un destino tragico insieme al senso di assoluta solitudine.

Kierkegaard

Nel diciannovesimo secolo, Kierkegaard la introduce come parola filosofica per designare lo stato emotivo dell’esistenza umana; rappresenta il sentimento di turbamento che investe l’uomo quando è posto di fronte all’incertezza e all’indeterminatezza della propria esistenza, che non è una realtà, ma una mera possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è in base alle scelte che compie. L’angoscia è uno smarrimento che «si può paragonare alla vertigine. Chi rivolge gli occhi al fondo dell’abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà».

Jaspers

Nella filosofia contemporanea da Heidegger, per il quale è uno spaesamento globale («non possiamo dire di fronte a che cosa: uno è spaesato perché lo è nell’insieme»), passando per Jaspers e per Sartre, tutti gli esistenzialisti utilizzano e si misurano con l’angoscia come condizione originaria dell’esistenza umana, insita nell’uomo in quanto uomo di fronte alla finitezza, alla libertà, alla percezione della solitudine.

L’angoscia prende mirabilmente forma nello straziante celebre dipinto L’urlo di Munch, urlo dell’essere gettati nel mondo e già condannati, simbolo del dramma colletttivo dell’angoscia. Il grido della nascita che è contemporaneamente il grido della morte. Chi è il personaggio raffigurato: uomo? donna? L’impossibilità di determinarlo ne fa “l’uomo”, cioè ciascuno di noi, l’intera umanità. Non c’è nessun pericolo esterno, solo un inafferrabile disperazione che si propaga nel nulla verso il nulla: agghiacciante incarnazione del nostro comune tragico destino.

L’angoscia è stata indagata nei suoi più reconditi meandri. Solo al nominarla ci assale perché ne siamo intrisi, è a noi connaturata.

Ma è stato così sempre e dovunque?

Sartre

Da ogni latitudine e ad ogni distanza l’uomo prova questo stato psico-fisico senza rimedio, senza scampo? È veramente “naturale” e dunque inevitabile e ineliminabile?

Non potrebbero venirci in aiuto le antiche sapienze orientali (induismo, buddismo, taoismo, tantrismo) con la loro visione del mondo non-dualista (advaita in sanscrito)?

Tutto quello che esiste, inclusi il mondo che l’uomo vede, incluso l’uomo, testimone del mondo, tutto è Uno.

Millenni orsono intuirono in maniera folgorante che non c’è separazione tra l’Io e il mondo, donandoci un’immagine della realtà ultima simile alla danza dell’energia, ad un intreccio cosmico dove tutto è unità e interconnessione reciproca senza interruzione alcuna, un’unica realtà saldamente connessa, che trascende la nozione (tipicamente occidentale) di sé come individuo singolo separato.

Oggi è arrivata la straordinaria conferma dalla fisica contemporanea.

Se dunque il paradigma dualistico vita-morte, mente-corpo, individuo-collettività fosse la trappola che ci ingabbia?

Se l’angoscia svanisse, si dileguasse, si dissolvesse attraverso le pratiche meditative, lo yoga o i koan dello zen, tutte esperienze personali in cui uno si scioglie, come il fiume nel mare, in questa realtà impersonale e sconosciuta?

Se il “fremito interiore della non-dualità” ri-modellasse la nostra psiche, i nostri pensieri e le nostre sensazioni, facendo sparire nel nulla anche la maledizione dell’angoscia?

Forse basta un’intuizione spontanea, immediata come un battito d’ali, per dissolverla e liberarcene?

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