LA PAROLA

Appocundria

«Niente paura. È soltanto un altro giorno che finisce».

Lo scrissi anni fa, dinanzi ad un tramonto napoletano, nel crepuscolo della mia appocundria. Se uno dei miei tre lettori ricordasse, accennando, a bassa voce, la bellissima canzone di Pino Daniele, allora vorrei dirgli che è sulla strada giusta: la parola di oggi è in lingua napoletana ed è proprio quel lemma sommesso e stanco, che non si può pronunciare senza almeno emettere un sospiro, un suono di disincantata accettazione, disteso, nostalgico quanto basta: a’pucundria (scritto come lo si dice  qui, nella terra della dea addormentata sul mare).
Due le accezioni che il termine ha in Italiano, come si legge nel vocabolario Hoepli :

ipocondria
[i-po-con-drì-a]
s.f. (pl. -drìe)
1 MED Forma di nevrastenia depressiva, che anticamente si credeva avesse sede nell’ipocondrio, per la quale il malato ha la sensazione ansiosa di disturbi fisici spesso inesistenti
2 estens. Grave, cupa malinconia

Accomunata spesso con la saudade, con la quale ha di certo quel legame di fratellanza che hanno le parole degli uomini del Sud del mondo, ma non il significato profondo, poiché saudade è mancanza, deprivazione, tristezza del ricordo della propria terra, di una persona cara scomparsa, appocundria è giunta alla consacrazione della Treccani il 4 gennaio 2016, giorno del primo anniversario della scomparsa del suo cantore, Pino Daniele, che le aveva dedicato uno splendido mix di versi e musica nel suo album Nero a metà, pubblicato con la EMI, nel 1980:

«Appocundria me scoppia / ogne minuto ‘mpietto /pecchè passanno forte / haje sconcecato ‘o lietto /appocundria ‘e chi è sazio / e dice ca è diuno /appocundria ‘e nisciuno… / Appocundria ‘e nisciuno».

Eccola. Pino Daniele è stato così bravo che mi sembra di vederla: questa ventata di malessere fisico e spirituale che passa e subito disfa l’ordine, sia pur provvisorio, di una giornata qualunque, e ti fa sentire ammalato, discordante con lo sfondo, col cuore colmo di tristezza, e ti fa dire che sei digiuno, quando in realtà sei sazio, perché hai fame e sete di quella felicità, che pure hai conosciuto, ma che ora ti sembra non aver incontrato mai.


Eppure a’pucundria non è soltanto un mood, uno stato d’animo, una vaga melanconia, una noia moraviana, un senso di disagio e di smarrimento, ma è anche una presa di coscienza; è l’irrompere della consapevolezza della propria impermanenza, è l’accettare la finitudine che è nostra, in confronto all’infinità e al mondo, dove siamo stati heideggerianamente gettati al momento della nascita.

Il protagonista del leopardiano “Canto di un pastore errante dell’Asia” non era forse anch’egli preda di questo sentire?

«Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?».

E non la si può negare. Essa è lì: un disagio esistenziale che non ha volto, diversamente dalla sofferenza per amore, è lì e ti è compagna e devi aspettare che passi, così, all’improvviso, com’è arrivata.
Però, Eduardo De Filippo, in “Fantasia”, una sua poesia del 1956, ci suggerisce un’azione di difesa, una procedura d’emergenza per uscire fuori dalla palude ipocondriaca: chiedere aiuto alla fantasia, la quale rende aerei i pensieri più pesanti, ci libera dallo sconforto e c’invita a prendere la vita come viene, senza macerarci troppo nell’autocompatimento.
«Pigliammoce sta vita cumme vene,
llassammo for’ ‘ a porta ‘a pucundria,
mparammece a campà c’ ‘a fantasia:
nce sta cosa cchiù bella pè campà?»

Il cantautore/poeta Pino De Maio, invece, ha come antidoto alla demotivazione alla quale, inevitabilmente, ci consegna a’pucundria, il mare; dicendoci che chi vive accanto al mare è fortunato, poiché la distesa azzurra cura egregiamente quell’astenia strisciante che accompagna l’insorgere di ogni malinconia.

«E pe furtuna ca je tengo o mare,
pecché quann ‘e vvote
ca ‘a pucundria m’acchiappa,
mo ca m’affonn dint’a sti penziere,
voglje sta vicino a te».

Anch’io voglio aggiungere la mia ricetta, per contrastare questa sirena che viene a visitarci a tradimento; consiglio il contrario di ciò che fece Ulisse: non dei tappi di cera per non udir le voci delle semidee, non robuste funi per restare legati all’albero maestro della nave, ma mente e cuore e orecchie disposte all’ascolto di un bel brano musicale; perché,  come espresso da Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, «Senza la musica la vita sarebbe un errore» e sarebbe davvero un errore non gustare, ad esempio, gli ultimi minuti di “Resurrezione”, il finale della Seconda sinfonia di Mahler, che metterebbero in fuga anche la più pervasiva delle appucundrie.