CRITICA IL PERSONAGGIO LIBRI

Arturo Collodel: storie di straordinario Nordest

La sede municipale di San Pietro di Feletto, nel trevigiano, trabocca di persone: parenti, amici, concittadini di Arturo Collodel, classe 1934, giunti a festeggiarlo in occasione dell’uscita di una bella monografia a lui dedicata, Se tornassi indietro farei il contadino a firma di Valter Esposito (Cleup Casa Editrice). «Certo, proprio così farei» ripete convinto al pubblico: quel titolo l’ha fortemente voluto, ed è difficile comprendere di primo acchito quale sia il nesso con la vita avventurosa di Arturo, il “re del gelato” come commentano dietro le quinte. Il libro è interessante, avvincente come un romanzo; soprattutto, il saggio è una miniera di notizie ed osservazioni puntuali su come il Nordest del miracolo economico sia sorto, apparentemente su fragili basi, e poi abbia potuto svilupparsi.

Inizi difficili, quelli di Arturo, in questa splendida terra sulle colline moreniche a nord ovest di Conegliano, coperte di vigneti – il celeberrimo prosecco –, tra boschi di robinie e castagni. Inizi di una povertà dignitosa: il padre Cesare è contadino (e poiché coltiva sul “suo” viene considerato un piccolo proprietario terriero, anche se il raccolto basta a sfamare la famiglia o poco più); la mamma Giuseppina è sarta da uomo. Nelle immagini della casa natale, nel ricordo di Arturo, in quelle strade non ancora sterrate che, alle prime piogge, diventano pantani e fanno diventare un problema andare a scuola o svolgere le normali attività quotidiane, c’è la fotografia del Nordest prima che diventi tale. Un Veneto ancora essenzialmente rurale, in guerra, che agli occhi del piccolo Collodel prenderà le forme della “sfilata di carri e cavalli”: «Solo con il tempo riuscii a capire che si trattava di soldati che si preparavano a partire». Ciò nonostante, a polenta latte e fagioli, la famiglia Collodel cerca di far studiare i figli Arturo e  Celio: elementari per Arturo, poi scuola di avviamento a Conegliano e due anni di istituto tecnico. Torna alla mente la constatazione dello psichiatra Vittorino Andreoli, durante un’intervista, poi confermata da molti imprenditori del Triveneto: «Per paradosso – dichiara Andreoli – potremmo dire, guardando alla storia, che la povertà è una grande ricchezza. La povertà è un debito di voglia d’imporsi e non va confusa con la miseria, che è passiva». Gli fa eco Gilberto Benetton: «Siamo partiti da una situazione pesante. Proprio la povertà più assoluta. C’era fame, c’era la volontà di fare a tutti i costi qualcosa per emergere …».

La casa natale di Collodel

Il Veneto del dopoguerra costruisce il suo modello economico e sociale con modalità autonome rispetto al resto del Nord Italia, tra molte contraddizioni. Arturo Collodel, che se la cava bene come tecnico specializzato, entra alla Zoppas di Conegliano, una delle grandi aziende dell’epoca, a fabbricare elettrodomestici: «Dopo qualche mese di apprendistato – racconta senza troppe smancerie – mi affidarono la produzione di una cucina a gas che doveva esser fatta interamente a mano, e mi concessero due operai come collaboratori». Parrebbe l’inizio di una radiosa carriera. Attorno, e via via più lontano dalle grandi concentrazioni industriali, si va concretizzando un tessuto fatto di piccole imprese, spesso di dimensione artigianale, caratterizzate già nell’immediato dopoguerra da una grande flessibilità e dall’ampio ricorso al lavoro a domicilio, al lavoro stagionale e precario, alla manodopera giovanile e femminile: una capacità di espansione totalmente imprevista, a cui si accompagna la meccanizzazione degli impianti tradizionali, la specializzazione della produzione e un primo accesso ai mercati d’esportazione.

Strano controsenso – ma ce ne saranno molti nei decenni successivi – in un periodo che vede le province venete segnate dall’emigrazione: in dieci anni, più di quattrocentomila persone in direzione del triangolo industriale Torino-Milano-Genova, oltre alle migliaia partite per Argentina, Venezuela, Canada e Australia. Lo sviluppo delle imprese a livello locale, in questo Veneto a due velocità, secondo lo schema “una fabbrica per campanile”, viene sostenuto nel secondo dopoguerra dalle stesse amministrazioni locali, attraverso un largo ricorso alle agevolazioni fiscali previste dalla legge per le aree depresse del 1957 e tramite incentivi diretti (come la cessione, a titolo gratuito, di terreni attrezzati dal punto di vista infrastrutturale ed energetico).

Arturo lavora alla Zoppas per tre anni, ma non si sente realizzato: «Non mi piaceva il lavoro e, soprattutto, la tipologia della giornata – racconta a Valter Esposito – Uscivo di casa la mattina presto col buio e rincasavo la sera, nuovamente col buio. Anche l’atmosfera all’interno dei luoghi di lavoro non era piacevole, non c’era affiatamento tra colleghi e le tante restrizioni a livello di sorveglianza creavano spesso momenti di tensione e gelosie (…) A volte – commenta – ci chiedevano di lavorare anche di domenica mattina e molto spesso non potevi rifiutarti, altrimenti a lungo andare rischiavi il licenziamento e, purtroppo, se lo potevano permettere. In certe giornate – aggiunge – c’era addirittura una coda di persone lunga quasi mezzo chilometro al di fuori della fabbrica che aspettava di poter ricevere una risposta in merito ad un’eventuale assunzione».

Tra storia d’impresa e storia del lavoro, quello che si evince dalla biografia di Arturo Collodel – sin dalle prime battute – è l’esistenza di un Veneto operaio che va cambiando: la modernizzazione che investe la regione con un certo ritardo rispetto al Nordovest, e che forse appare per questo più accelerata e contraddittoria, è stata spesso letta come il risultato (in parte involontario) di un duro auto-sfruttamento, fatto di straordinari e ritmi frenetici, di mancata scolarizzazione. Si sono evidenziati da un lato la tendenza a ciò che è stato definito un “capitalismo del sottoscala” (forse in omaggio al cosiddetto “capitalismo straccione” di togliattiana memoria) e, dall’altro, lo stereotipo delle “maestranze laboriose e pie”, pronte a piegarsi alla volontà dei più forti. Invece, tra queste opzioni estreme (e la figura di Collodel sta a dimostrarlo), esiste un ventaglio di esperienze concrete, a volte pionieristiche, ma spesso capaci di farsi perno di alleanze più ampie. Arturo, fino a quando la sua famiglia può permetterselo, studia, acquisisce competenze. Pensa con fantasia ed ambizione, e dopo tre anni si licenzia dalla Zoppas. Di diventare un metalmezzadro, non ha alcuna intenzione: quello è l’operaio metalmeccanico che continua a lavorare nei campi durante il tempo libero dai turni di fabbrica, raddoppia i redditi, ingrandisce la casa e compra altra terra. Quanto in passato si è fatto con le rimesse degli emigranti, ora si costruisce lavorando il doppio.

Collodel, il primo a destra, sulla nave “Roma”

Arturo, al contrario, sceglie di partire, destinazione Canada, nel 1954. Perché così lontano? «Negli anni Cinquanta – il racconto di Collodel, supportato dalle domande di Esposito, sembra appartenere ad un’epoca lontanissima dalla sala municipale commossa di Rua di Feletto  – ma già a partire dall’immediato dopoguerra, migliaia sono stati gli emigranti che approdavano nel Nuovo Mondo, e molti di questi cercavano una diversa prospettiva di vita proprio in Canada, per le politiche di accoglienza di quello Stato e per i grandi spazi ancora da sfruttare. Non che fosse uno scherzo: dapprima le autorità canadesi volevano sincerarsi che ciascuno di noi avesse un punto d’appoggio, amici o parenti già in loco, oltre ad un’idea di quel che si voleva fare. Poi, il viaggio: fino all’avvento del trasporto di massa in aereo, a metà degli anni Sessanta, si andava per mare, ed era lungo e faticoso … Noi facemmo parte della cosiddetta seconda ondata immigratoria: Toronto, ma anche altre città più piccole dell’Ontario, come Windsor».

La scelta cade proprio su Windsor: lo si vede, nella foto, sulla tolda della nave “Roma” con un gruppo di amici emigranti, tutti in giacca e cravatta, il sorriso della speranza. Un debito con la vita, la voglia di una casa con un pavimento vero, e non in terra battuta, un’automobile. La faccia di chi, pur tra mille dubbi, con lo stomaco rovesciato dalla traversata e la nostalgia delle colline, tenta il tutto per tutto.

Da Windsor in poi, Collodel non perde tempo. Ricorda quei primi dieci dollari guadagnati raccogliendo tabacco; riesce a farsi assumere alla Chrysler, scoprendo una diversa organizzazione del lavoro rispetto ai ritmi padronali italiani: più autogestione, maggior libertà d’intervento. «L’importante – commenta – era dimostrare a fine giornata di aver reso. Questo non mi era stato detto, ma l’ho capito da subito, ed è stata una regola che mi è servita per sempre». Resta da chiedersi se l’autonomia e la vitalità dimostrate dai distretti industriali del Triveneto nei decenni successivi siano state ispirate anche da queste esperienze all’estero, se quella che è stata definita “economia di scala collettiva” abbia a che fare con la conoscenza di altre modalità del lavoro.

A sentir parlare Arturo, a sentirlo raccontare del “valore umano” nel processo di produzione, non si può che ammirare quella mescolanza simbiotica di pragmatismo, azzardo ed intelligenza emotiva che ha guidato i suoi passi, così come è avvenuto per molti altri imprenditori italiani. Un rapporto tra le aziende locali che è contemporaneamente di collaborazione e competizione, ma legato ad un sistema di valori comuni: un’etica del lavoro, innanzitutto, profondamente connaturata, oltre ad un clima di fiducia diffusa che possa favorire l’informalità delle transazioni (con conseguente diminuzione dei costi). Forse, sta anche nell’esperienza di quella generazione che parte e impara, la capacità di parare i colpi, persino per quel che concerne la tragica crisi dal 2008 in poi.

La gelateria a Vancouver

Collodel, in Canada, mangia la prima pizza della sua vita; passa, dalla Chrysler, a lavorare come saldatore in compagnie esterne di manutenzione degli impianti di raffineria, dapprima a commessa, poi ingaggiato dalla Horton Steel per interventi in tutto il Canada. Da qui, il racconto prende il gusto dell’esplorazione: per andare e venire da Sarnia, la cittadina dove risiede a nord di Windsor e rendere il viaggio più veloce, Arturo attraversa parte degli Stati Uniti (da Detroit a Chicago, Minneapolis, Nord e Sud Dakota, fino a Washington). Nel libro racconta di Churchill, a nord di Winnipeg, sulla baia di Hudson in Manitoba: il passaggio delle balene, la difficile condizione di indiani ed eschimesi toccati, loro malgrado, dalla modernità. Narra di luoghi ancora più a nord, verso il Lago degli Orsi, dell’atterraggio fortunoso con un piccolo aereo privato sui ghiacci intorno al campo base, dell’incendio fortuito del cantiere a Yellowknife che ha segnato l’interruzione della sua esperienza come tecnico in Canada.

Quindi una nuova scelta, sorprendente, decisiva. Arturo si consiglia con i parenti e decide di trasferirsi in Germania. Non conosce il tedesco, ma sa che imparerà in fretta (così come ha appreso velocemente l’inglese). «Non fu per niente semplice – racconta – prendere una decisione così importante, un altro cambio di rotta … ma, con gli anni, ho maturato l’idea che la strada che compiamo, proprio quella, è la vita». Ai ragazzi che lo ascoltano con un pizzico di stupore, nel ritrovare tanta energia in un ottuagenario, ribadisce che tutto è possibile, che le difficoltà esistono, ma non è ragione sufficiente per mollare, che tutte le epoche sono “difficili” per una ragione o per l’altra. Nella Germania dei primi anni Sessanta, decide di occuparsi di gelati, ed il salto dalla meccanica alla degustazione sembra impossibile.

Non per Arturo: una falsa partenza, poi la prima gelateria nel Saarland, a Ottweiler, e una seconda. È solo l’inizio: nel 1968 sposa Nadia che lo segue in Germania e gli darà due figli, Ivano e Massimo. Prova ad esportare la sua ricetta del gelato artigianale ancora in Canada, a Vancouver, dove apre un locale. Un ritorno senza la “valigia con lo spago” questa volta, ma l’idea non è compresa. Tuttavia, dalla seconda esperienza canadese, Collodel riporta in Germania un’intuizione fondamentale: l’importanza dei centri commerciali che, nel frattempo, cominciano a sorgere oltreoceano. «In fondo, non è bello mangiare il gelato in un capannone spoglio» commenta con una punta d’orgoglio. È così che Arturo Collodel s’inventa gelaterie dove la gente può soggiornare, degustare e trascorrere momenti di socialità anche nei centri commerciali. Collabora con una fabbrica di arredamento specifico per gelaterie a Conegliano: prende le misure degli spazi e progetta allestimenti. Contatta poi la principale ditta che costruisce centri commerciali in Germania, la ECE Amburgo e ci lavora per quarant’anni, trasformando completamente il mercato della gelateria e la concezione stessa del prodotto made in Italy: artigianale, genuino, un lusso alla portata di tutti. «È andata bene fino al gennaio del 2008, quando è stata varata in Germania la legge che proibisce di fumare nei locali pubblici. Ai tedeschi proprio non è andata giù di non poter più entrare con la sigaretta accesa in bar, ristoranti e gelaterie… Per noi, incredibile ma vero, ha rappresentato un crollo nelle presenze e nelle vendite – commenta – Se pensiamo che tutto ciò è coinciso con l’inizio della crisi, il gioco è fatto».

Tuttavia, Collodel ha la pelle dura: tenta l’esperimento di un locale-gelateria all’avanguardia, sia sotto l’aspetto logistico che tecnico. Lo apre in un nuovo quartiere nel porto di Amburgo, ma i tempi non sono ancora pronti e il progetto «forse quello di cui sono andato più fiero», dice, fallisce. È qui che si rivela la chiave del successo del Nordest, di cui Arturo Collodel è piena espressione: mai smettere di provarci, inventare, riconvertire se occorre, saper cogliere le correnti. «Assieme ai miei figli – racconta – ho deciso di cambiare. La produzione resta nostra ed esterna ai locali … allora dedichiamoci completamente al gelato per esportazione. Anzi, si dedicheranno loro più di me, che ho tanto altro da fare. Se hanno bisogno di un consiglio, sono qua».

Se con l’avvento della crisi, dati alla mano – secondo le rilevazioni più recenti del C.G.I.A. di Mestre – il prodotto interno lordo del Veneto è calato di quasi nove punti percentuali, è anche vero che la ripresa è stata migliore rispetto al dato medio italiano. «Certo che è complicato – commenta Collodel – abbiamo assistito a strette creditizie alle imprese, allo sconvolgimento del sistema bancario; ci sono nodi infrastrutturali da sciogliere, scandali per ciò che riguarda le grandi opere. Soprattutto, c’è difficoltà a fare catena, a noi veniva più semplice, perché ragionavamo anche col cuore».

Di cuore Arturo ne ha messo tanto, e non solo nel lavoro: ha fatto il giudice conciliatore, è stato consigliere comunale a San Pietro di Feletto e ha ricevuto dal Presidente Sandro Pertini l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Ha amato i suoi amici (tra cui i pittori Vittorio Ruglioni e Gianluigi Zanette) di un affetto saldo e duraturo, senza compromessi. Gli piace ancora viaggiare: «per dovere e per piacere… posso dire di essere stato in tutti i continenti, dai Caraibi all’Estremo Oriente, ai Poli. Però, se mi guardo indietro, penso che il viaggio più bello sia stata la mia vita. Rifarei tutto … anche se penso che forse sarebbe stata meravigliosa lo stesso se, invece che andarmene in cerca di fortuna, avessi davvero fatto il contadino!»

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