LA PAROLA

Assènza

Assonante all’essenza e all’assenzio – di cui daremo conto in un’altra voce di questo quotidiano vocabolario e da cui non sono esenti – e attinente alla celebre frase «to be or not to be», essere o non essere – che si suppone i più sappiano appartenga all’Amleto di Shakespeare, nonché avente a che fare con il concetto di “dasein” (esserci) formulato da Martin Heidegger – l’assènza andrebbe scritta con un accento sulla è, come fa la Treccani, per distinguerla dall’assenza senza l’accento di cui si riferirà più sotto.

Ne diamo conto non solo per l’impegno preso alcuni giorni orsono riferendo di rimedio ma perché è un termine, una parola, con cui, lo si creda o meno, ci si misura ogni giorno, si tratti della propria o dell’altrui.

Dice l’autorevolissima Enciclopedia Treccani che essa è un sostantivo femminile derivato dal latino absentia, il cui significato è quello di non essere in un luogo in cui uno dovrebbe invece trovarsi o abitualmente rinvenirsi, come, per esempio, l’essere assenti dall’ufficio o dal lavoro, condizione che ha dato luogo alla parola – coniata nel 1829 dal politico inglese Th. P. Thompson per designare l’abitudine dei proprietarî terrieri irlandesi di vivere lontani dalle loro proprietà, poi trasposta a quanti, per vizio o con pervicacia, per motivi reali o pretestuosi, si sottraggono all’obbligo di essere dove dovrebbero, si tratti della fabbrica o del Parlamento e, di qui, a quanti manifestano indifferenza o disinteressamento di fronte ai doveri civici, ai problemi politici e sociali, alle questioni d’interesse comune e collettivo – assenteismo.

Si può, dunque, essere assenti da una riunione o tornare dopo una lunga assenza, tenere nelle scuole un registro delle assenze o far le veci di qualcuno in assenza di un altro, metti il sindaco, al cui posto è deputato l’assessore più anziano. Sempre a scuola l’assenza la si giustifica, sia il genitore depositario della patria potestà a farlo, essendo il figlio minorenne, o lo studente stesso, raggiunta la maggiore età, e comunque darne ragione, di conseguenza accettarle e riconoscerle valide, altrimenti considerarle ingiustificate.

L’assenza dei requisiti necessarî inibisce, o dovrebbe inibire, la possibilità di concorrere ad un determinato posto; quella di volontà apre un’infinità di questioni giuridiche, psicologiche e morali per le quali altro che una voce di dizionario ci vorrebbe!

C’è poi l’accezione priva d’accento di cui si riferiva prima, quella che in diritto viene impiegata per indicare la «situazione d’incertezza circa l’esistenza in vita di una persona, sanzionata, dopo almeno due anni dalla sua scomparsa, mediante sentenza del tribunale (dichiarazione di a.), sia a tutela del patrimonio della persona scomparsa sia nell’interesse dei presunti eredi», di cui tratta l’articolo 48 e i seguenti del Codice civile. Ed infine quella che in campo medico, e specificamente neurologico, indica quella «forma di epilessia che si manifesta con una improvvisa e fugace sospensione della coscienza, non accompagnata da fenomeni convulsivi ma, qualche volta, da atti automatici».

Quanto qui preme sottolineare – ne riferiscano o meno gli autorevoli dizionari e le enciclopedie – è che l’assenza è il contrario della presenza – parola su cui, in questo quotidiano dizionario, magari si tornerà in seguito – e che, sotto questo aspetto, essa ci costringe a fare i conti con quello splendido libro che s’intitola Il miracolo della “presenza” mentale (virgolette mie), scritto da un monaco buddhista vietnamita avanti negli anni di nome Thich Nhat Hahn, che non solo ci insegna a misurarci tanto con il tema della presenza, quanto con quello dell’assenza – degli altri e prima di tutto nostra – ma anche dello star bene: nostro e degli altri. Buona lettura, in presenza di spirito e in assenza di suggeritori.

 

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