LA PAROLA

Astenico

La Paresse (Félix Vallotton, 1896)

L’aggettivo deriva dal greco ἀσϑενικός (asthenikós), debole, ed è il termine medico utilizzato per designare una persona che presenta astenia. Il significato è già tutto nel suo etimo, in quell’ ἀ- privativo che precede il derivato di sthènos, forza: senza energia, debole, depresso, esausto, fiacco, spossato, stanco.

In casi particolari, si parla addirittura di abito astenico per delineare la conformazione fisica di un soggetto dall’aspetto longilineo, magro, con muscolatura scarsamente sviluppata, scapole alate, torace cilindrico e tendenza alla facile esauribilità funzionale.

L’insieme vario e aspecifico delle sensazioni, o sintomi, riferito dall’astenico è difficilmente passibile di registrazione obiettiva essendo più che altro inteso come una percezione soggettiva, indicando cioè solo la sensazione provata dal soggetto. Considerata nel suo complesso la congerie di situazioni esperite dall’astenico – la debolezza muscolare, la svogliatezza, la perdita di interessi,… – può essere sia in rapporto con cause organiche, e quindi più propriamente somatiche, che con cause psichiche, oppure con entrambe: una discriminazione netta tra le varie forme è molto difficile. In ogni caso, il segno principale è la difficoltà a svolgere bene il proprio lavoro e le normali mansioni quotidiane: tutto sembra difficile e insuperabile. La stanchezza è di quelle che il riposo non riesce a debellare, appare infatti sin dal mattino, rende difficile alzarsi pur non essendo motivata da fatiche particolari e si associa costantemente a un pessimismo di fondo, a irritabilità, nonché a un insidioso abbassamento della soglia di attenzione. Le statistiche ci informano del fatto che tra gli astenici la percentuale maggiore sia rappresentata dalle donne fra i trenta e i quarantacinque anni – proprio quando è massimo l’impegno sul fronte professionale e familiare – per quanto nessun gruppo sociale, e nessuna fascia di età, possa dirsi del tutto esente, nemmeno i bambini. In virtù del profilo generico dei suoi sintomi, l’astenico non di rado diviene oggetto di biasimo e riprovazione di quanti gli stanno accanto, dai quali la sua indolenza viene mal sopportata.

Antieroe per eccellenza, l’astenico è un personaggio ottocentesco. Non a caso è in tanta letteratura prodotta, o ambientata, nel diciannovesimo secolo che lo troviamo più spesso immortalato: non si possono nutrire dubbi sull’astenia del perennemente sfinito proprietario terriero russo Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo di Gončarov; è astenico il piccolo e gracile Hanno, al cui ruolo Thomas Mann affida ne I Buddenbrook il compito di incarnare il disfacimento della famiglia borghese che dà il titolo al romanzo; astenia conclamata è anche quell’«incerto stato di malessere, debolezza fisica, di idee fisse e di devozione» a cui si abbandona la proustiana zia Léonie – quella della madeleine, nel primo volume della Recherche di Proust – che trascorre gran parte della sua vita distesa sul letto della sua camera di Combray dove alla fine muore «decretando il trionfo sia di coloro che pretendevano che il suo regime debilitante avrebbe finito con l’ucciderla, sia degli altri che avevano sempre sostenuto che soffriva di una malattia non immaginaria ma organica, alla cui evidenza gli scettici sarebbero ben stati costretti ad arrendersi quando lei ne fosse stata sopraffatta»; a suo modo può dirsi astenica anche Emma Bovary, nella sua insoddisfazione per la propria esistenza e, soprattutto, nel suo rimanerne poi invischiata e inghiottita.

L’astenico dunque come elemento di rottura in un eccesso di positività, se così si può dire, caratteristico di precisi contesti storico-sociali; non è un caso infatti che nel successivo “secolo breve” con le sue guerre e i suoi cataclismi – il suo carico di negatività – non ci sia stato spazio sufficiente per tale tipo umano. Riemerge invece ai giorni nostri, e in costante aumento secondo i dati, in accordo anche con quanto sostiene nel saggio La società della stanchezza il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Per lo studioso la stanchezza pervasiva e generalizzata, tratto caratteristico degli ultimi decenni, è imputabile al passaggio da una società di tipo disciplinare, in cui si era sottoposti a diverse forme di obbedienza, all’attuale società della prestazione, in cui invece i soggetti sono gli imprenditori di se stessi; al “non potere” della società disciplinare si è sostituito il “poter fare” del nostro presente.

Da tale «violenza della positività», una violenza che «non è privativa ma saturativa», nasce l’angoscia di non essere all’altezza delle proprie aspettative e delle prestazioni che ogni singolo individuo sente di dover offrire, ma che in realtà pretende prima di tutto da se stesso. L’incessante stato depressivo di fondo deriva dalla sensazione di non riuscire a corrispondere all’obbligo assunto con se stessi, con il risultato di diventare contemporaneamente sfruttato e sfruttatore. Solo percepire la stanchezza come terapeutica, prosegue Han, avvertirla come una «potenza negativa» che ci permette di non rispondere all’istante alle sollecitazioni, consente all’agire di non degenerare necessariamente nel lavoro, e di restituire all’attività contemplativa il giusto spazio nella vita di ciascuno: «La stanchezza che ispira è una stanchezza della potenza negativa, ossia del non-fare». La rivincita dell’astenico.

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