di Serena Bersani
Umiltà e insolenza. Sono queste le due virtù, ritenute alternative tra loro, necessarie a chi da dieci anni svolge il compito di custode della memoria in un luogo unico al mondo, il Museo di Auschwitz. L’umiltà necessaria a dirigere uno spazio che non è proprietà di chi lo dirige, né della Repubblica di Polonia e neppure dell’Europa, ma della consapevolezza umana. E l’insolenza per dire no ai consigli dati da persone che hanno un rapporto fortissimo con questo luogo.
È quanto racconta Piotr Cywinski, storico polacco, direttore del luogo in cui hanno perso la vita oltre un milione di persone e divenuto simbolo della Shoah, in un’intervista rilasciata a Wlodek Goldkorn pubblicata il 9 gennaio su Repubblica. Della sua esperienza il direttore del Museo di Auschwitz parla estesamente nel libro pubblicato in questi giorni Non c’è una fine, edito da Bollati Boringhieri.
“Una cosa è una parola scritta per narrare una storia, altra cosa è la parola incisa qui sul terreno”, dice Cywinski per spiegare la volontà di preservare gli oggetti che gridano al mondo una delle più profonde ferite della storia, in risposta alle sollecitazioni di Goldkorn, giornalista di origini polacche che nel libro uscito lo scorso anno Il bambino della neve ha raccontato la storia dei propri genitori scampati agli orrori del nazismo: “Perché si insiste nel rinnovare il filo spinato, a costruire le fondamenta sotto le baracche, a preservare gli oggetti come le valigie, le bambole, gli occhiali, le scarpe, che comunque non sono in grado di trasmettere l’indicibile e l’inimmaginabile? Non sarebbe meglio se tutto questo un giorno diventasse solo un cumulo di macerie? Non sarebbe meglio che la memoria avesse solo una dimensione simbolica e non materiale?”. È una scelta, risponde Cywinski. Così come è una scelta di altri campi di sterminio, come Treblinka o Belzec, esprimere la memoria soltanto attraverso le opere d’arte o l’architettura. Auschwitz – afferma il suo custode – è come quei luoghi di genocidio fuori dall’Europa, in Ruanda per esempio, dove si possono vedere le ossa e i teschi: “È l’unico tra i principali campi di sterminio dove si sono conservati alcuni caratteri di autenticità perché i tedeschi non fecero in tempo a raderlo al suolo”.
Ma Auschwitz è anche il luogo del vuoto. “Quando si entra in una baracca vuota, si vede una baracca vuota. E io voglio che quel vuoto risuoni forte. Le ceneri delle vittime sono state gettate nella Vistola, quindi non ci sono tombe”, dice il custode del Museo che, anche per questo, ritiene non si possano scegliere biografie esemplari, come quella di Anna Frank, perché il rischio è che queste icone mettano in ombra gli altri milioni di vittime di cui non si sa nulla. La funzione di questo luogo non deve essere una specie di “lavanderia della coscienza”, come adombra l’intervistatore Wlodek Goldkorn in riferimento ai pellegrinaggi di certi politici in campagna elettorale. Esiste dunque per suscitare empatia nei visitatori? In tante lunghe passeggiate solitarie nel terreno dell’ex lager il custode di Auschwitz ha maturato una convinzione: “Penso che in un luogo come questo ci vuole un misto di empatia e di radicale razionalità”.
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