LA PAROLA

Autobomba

«Automezzo carico di esplosivo, che viene fatto esplodere a comando, per compiere attentati». È questa la definizione più comune nei dizionari italiani per descrivere un veicolo​ in cui viene nascosto un ordigno, innescato dall’accensione del motore o azionato a distanza.

Le autobombe appaiono​ per la prima volta​ negli anni Sessanta e Settanta in Medio​ O​riente, ma diventano tristemente familiari agli italiani tra gli anni Ottanta e Novanta​ del Novecento, quando si affermano​ come​ lo strumento utilizzato da Cosa Nostra per intimidire o, molto più​ s​pesso, per uccidere chi intralciava i suoi interessi.

Viene provocata con un’autobomba la strage dei Georgofili a Firenze, quando nella notte tra il 26 e 27 maggio 1992, un’autobomba esplode vicino alla Galleria degli Uffizi, uccidendo cinque persone. E qualche mese più tardi, il 19 luglio dello stesso anno, è di nuovo un’autobomba a costare la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta, in quella nota come “strage di via D’Amelio”. Il 14 maggio del 1993, un’autobomba esplode a Roma, in via Fauro, destinata al giornalista Maurizio Costanzo, che in quei mesi dal salotto televisivo del suo celebre show denunciava l’operato della criminalità organizzata. L’esplosione non fece vittime, ma ventiquattro persone rimasero ferite.

La parola autobomba in quel periodo diventa di uso comune: sui giornali​ e​ in tivù​ è frequente sentirne parlare con a corredo le terribili immagini di devastazione che questo strumento di morte può provocare. Poi, dopo accenni sporadici a episodi lontani da noi​, fatta eccezione per il terribile attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003, dove un camion cisterna carico di esplosivo uccise ventotto persone, tra cui diciannove Carabinieri, questa parola è tornata prepotentemente ​nelle nostre case: a Limbadi, comune di Vibo Valentia, un’autobomba ha ucciso, il 9 aprile scorso, Matteo Vinci, 42 anni, incensurato, figura nota nella sua comunità anche perché impegnata a denunciare i soprusi delle cosche mafiose. E proprio la ‘ndrangheta ha deciso di ucciderlo con questo mezzo, che ha ferito gravemente il padre della vittima, di 73 anni.

Il ritorno di questa parola e della pratica che descrive deve mettere ognuno di noi sull’avviso per non abbassare la guardia: la Mafia nel nostro Paese non è scomparsa, ha intrapreso altri percorsi e compiuto azioni meno eclatanti.

Come ha sottolineato di recente don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie in un’intervista al Tirreno per commentare la giornata del 21 marzo dedicata, appunto, alle vittime della mafia, quelle attuali «… Sono mafie “normalizzate”, non più un “mondo a parte” ma parte di questo mondo». E c’è, ha aggiunto il prete, il «…grave rischio di credere che, siccome è diminuito il tasso di violenza sanguinaria, siano più deboli del passato. Per i morti ammazzati che diminuiscono, cresce infatti il numero dei “morti vivi”, delle persone a cui le mafie tolgono speranza, dignità e libertà».

La Mafia continua, quindi, miseramente, a far parte del tessuto sociale italiano. Della parte marcia, si intende.