LA PAROLA

Automa

In Arabia Saudita sembra che, durante una farsesca conferenza, sia stata concessa una cittadinanza farlocca ad un automa americano di sesso femminile, un “ginoide” dal volto di plastica e gli occhi di ghiaccio che risponde alle domande mimando le espressioni umane con tutto il coinvolgimento emotivo di un navigatore satellitare; è lecito chiedersi il senso di una simile manifestazione mediatica in un paese di parvenus beduini che puniscono le mogli se prendono l’automobile da sole e trattano i domestici stranieri con una grazia che avrebbe convertito il vecchio Scrooge all’umanitarismo senza bisogno di ectoplasmi.

Si vede ovunque ci sia una rivincita del robot, dell’imitatore sintetico della vita e dell’azione; e poco importa se gli sguardi critici su questa tematica sono riservati ai bistrattati film di fantascienza, mentre ovunque si agita un entusiasmo per l’automazione e i simulacri che alle volte pare un po’ acritico, se non eccessivo; i dilemmi etici sono una pastoia del passato, destinati ad essere paradossalmente messi da parte qualora tali eventi appaiano nella realtà?

Eppure il sogno/incubo di poter ricreare i viventi come fossero gioielli e pezzi d’artigianato è antico; Il termine greco da cui la parola automa deriva indica la possibilità di muoversi di propria volontà, ma paradossalmente l’automa è sempre stato un oggetto a completa disposizione del creatore o di eventuali clienti; l’usurpazione finale della creazione divina, resa meno blasfema dalle grandi limitazioni dei prodotti.

Nell’antica Grecia le leggende di copie di esseri viventi create con materiali artificiali sono collegate alle leggende archetipiche di grandi artigiani, come il Dio Efesto o il grande demiurgo tecnico Dedalo.

È nel mondo arabo che si ritrovano, prima dell’inizio dell’egemonia ottomana, prime testimonianze relativamente affidabili di macchine costruite per replicare animali, piccoli diorami in movimento e pure suonatori e musicisti artificiali, quest’ultima categoria di pupazzi di grande successo; molto ben voluti erano anche gli animali artificiali.

Nell’età moderna le dottrine di Cartesio rinforzarono il meccanicismo e vennero superate da idee ancora più spavalde, come la teoria dell’”Uomo Macchina” di La Mettrie; nuovi automi riempiono l’immaginario degli europei, tra cui anatre automatiche capaci di defecare e una imitazione truffaldina, gestita da un tizio all’interno, degli automi musicali orientali.

Ma man mano che andiamo avanti nel tempo, gli automi assumono una connotazione sinistra; nel romanzo geniale di Mary Shelley, Frankenstein, uno scienziato ginevrino riesce a creare usando come componenti membra di cadaveri l’automa definitivo, vera imitazione dell’essere umano, ma ne rimane a posteriori disgustato, condannando ingiustamente l’Adamo artificiale ad una vita di solitudine e delitti; magari un altro ginevrino avrebbe potuto, con più amore, trasformare l’automa di carne in un vero Cytoien.

In uno dei suoi più celebri Notturni, l’Uomo della Sabbia, il tedesco Hoffman immagina la cospirazione di uno stregone che, sotto la copertura di ottico, fabbrica veri e propri replicanti di esseri umani per infiltrare la buona società.

Col dramma di Capek sui Lavoratori universali Rossum, l’automa acquista un nuovo termine descrittivo preso proprio dalla lingua ceca: robot, ovvero lavoratore. Non più gioco di società, usurpazione della creazione divina o metafora filosofica, l’automa diviene un utilissimo emancipatore del lavoro, uno strumento parlante alternativo allo schiavo; da qui, inizia un’altra serie di pesantissime questioni filosofiche…