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Bianco, benestante e beota: ecco l’alunno modello

Recita l’articolo 33 della Costituzione: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi (…)». E l’articolo 34: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

I padri costituenti guardavano avanti e guardavano lungo. L’Italia del secondo Dopoguerra era segnata dall’analfabetismo, dalla bassissima scolarizzazione, dalla scarsa conoscenza della lingua, dalla prevalenza di centinaia di dialetti diversi, comprensibili solo alle popolazioni che li parlavano. L’istruzione era necessaria a formare cittadini edotti e a metterli in comunicazione tra loro. E ben venissero i contributi della radio e più tardi della televisione, del maestro Manzi che, nel 1960, alfabetizzava gli italiani attraverso il tubo catodico con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”.

La scuola era istruzione, ma anche inclusione sociale, doveva abbattere le differenze e, nel dettato costituzionale, favorire la crescita sociale ed economica. Ci sono voluti molti anni, tutte le proteste iniziate nel celebrato o misconosciuto ‘68 e diverse riforme sull’estensione dell’obbligo perché cominciasse a funzionare. Ma il segnale era forte e chiaro. In ogni caso, per i figli dei “ricchi” che volevano rimarcare la differenza sociale restavano le scuole private e quelle parificate.

Allora cosa ne è stato di quella scuola? Quanto è tutelato oggi il diritto all’istruzione che, vale ripeterlo, comprende tanto la libertà di insegnamento e di istituire scuole (diritto di istruzione), quanto quella di ricevere un’istruzione e la libertà di sceglierla, la scuola (diritto all’istruzione)?

Riescono gli istituti statali a garantire le stesse opportunità di imparare al figlio dell’operaio come del chirurgo, all’immigrato come al rampollo di una famiglia industriale?

Più di 50 anni fa, Don Milani diceva e scriveva, tra le altre cose, che solo l’istruzione, la conoscenza della lingua e la parità del lessico avrebbero consentito all’operaio di far valere i propri diritti davanti al padrone. Allora erano i dialetti e l’analfabetismo che marcavano la differenza di classe, oggi sono le lingue dei disperati che vengono in Italia in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli. Sono anche i figli dei meno abbienti e dei nuovi poveri, privi di mezzi, ma che hanno «uguale diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi» (giova ripeterlo). Insieme ai compagni più sfortunati, quelli con disabilità fisica o psichica, i ragazzi cui la scuola pubblica, abolito il ghetto delle classi differenziali nel 1977, dovrebbe garantire il sostegno di personale specializzato per favorire il loro inserimento sociale e aiutarli nell’apprendimento.

Facile, sulla carta, rispondere alla Costituzione e fare di ogni ragazzo un cittadino libero e consapevole, senza differenza di censo, razza, lingua, status. Meno facile nei fatti. Forse i primi ad esserne coscienti dovrebbero essere i genitori, gli insegnanti e i dirigenti scolastici. Molti, moltissimi lo sono, altri meno.

I segnali, infatti, non sono buoni: se uno studente di 17 anni accoltella l’insegnante che lo avrebbe a suo dire offeso, se un vicepreside viene preso a calci e pugni dai genitori di un alunno che aveva rimproverato, se i dirigenti scolastici discriminano pubblicamente gli allievi per razza, censo e stato di salute, evidentemente c’è qualcosa che non ha funzionato.

Il caso è noto ed è scoppiato l’8 febbraio con un articolo del quotidiano “La Repubblica” a firma di Corrado Zunino. Titolo, Qui niente poveri né disabili: le pubblicità discriminatorie dei licei. A cascata la notizia è stata ripresa dai principali quotidiani nazionali, dalla tv, dai siti internet d’informazione e di approfondimento.

Alla gogna le autovalutazioni di alcuni prestigiosi istituti di istruzione superiore, riportate e visibili sul portale del Ministero della Pubblica istruzione “Scuola in chiaro”, una sorta di bussola per aiutare le famiglie che scelgono l’iscrizione on-line, ad orientarsi nel mondo variegato dell’offerta didattica . Basta inserire il nome della scuola, cliccare su autovalutazione, scaricare il cosiddetto Rav (rapporto di autovalutazione) e si trovano dettagliate schede tecniche sulla base degli indicatori ministeriali, accompagnate da brevi descrizioni su strutture, offerta didattica, composizione delle classi, numero degli alunni ecc.

Se poi qualcuno si fa prendere la mano, capita di scrivere anche quello che è riportato sulla scheda del prestigioso liceo romano “Ennio Quirino Visconti”: «le famiglie che scelgono il liceo – riporta il Rav – sono di estrazione medio-alta, borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo». Dopodiché specifica: «tutti, tranne un paio, sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento», aggiungendo che la percentuale di alunni svantaggiati per condizione economica è pressoché inesistente».

Così anche il liceo-ginnasio Andrea D’Oria di Genova e il celebre Parini di Milano. Dopo l’uscita degli articoli, anche a una ricerca minuziosa, non sono emerse altre simili presentazioni nelle schede di altri istituti. Sicuramente moltissimi dirigenti si sono ben guardati dal rimarcare questi aspetti, ma ci sarà anche chi è corso ai ripari.

È andata, la bolla è scoppiata e i miasmi si sentono ovunque. Non hanno fatto una gran figura i dirigenti scolastici, più manager che educatori, più attenti al budget e ai risultati ed alla qualità della didattica. Del resto questo vuole lo Stato da loro. Resta da chiedersi, però, se la “leggerezza” nella stesura dell’autovalutazione sia frutto d’ignoranza, sia il tentativo ruffiano di ingraziarsi il gradimento dei genitori (quelli medio-borghesi, ovviamente) rispondendo al comune sentire che povero è brutto, che povero e straniero è ancora più brutto, che una bella classe di ragazzini italiani economicamente benestanti, sani nel corpo e nella mente, tutti gadget e abiti alla moda aiuti l’apprendimento dei ragazzini medesimi.

Senza prendere minimamente in considerazione che le “diversity” (per inciso: molte scuole stanno introducendo la figura del cultural diversy manager) sono una risorsa di crescita intellettuale e sociale, di maturazione, di educazione al rispetto, necessari a una società inclusiva e non esclusiva. Senza pensare che la scuola è il più grande mezzo di integrazione che esiste e che una società multirazziale, aperta e tollerante è la migliore risposta a un sistema che immagina i popoli chiusi in piccolissimi micromondi, a difendere benefit e privilegi da minacce più o meno reali.

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