LA PAROLA

Bifolco

SERENA BERSANI

Bifolco. Come dire: buzzurro, bovaro, zotico, cafone, villano, villanzone. In romanesco: buro, burino.

Ora, una domanda sorge spontanea: perché per definire una persona screanzata, ignorante e dai modi volgari, triviali, incivili si fa ricorso alla nominalizzazione di aggettivi che rimandano al mondo contadino?

Bifolco, dal latino bibulcus poi volgarizzato in bifulcus è infatti il guardiano di buoi, colui che lavora la terra con i buoi. Analoga derivazione ha bovaro, mentre zotico viene forse dal latino idioticus, cioè ignorante. Buzzurro era il nome dato in Toscana ai montanari che scendevano in città per vendere castagne e dolciumi; su cafone invece gli studiosi di etimologia si accapigliano prospettando diverse derivazioni, ma la più probabile è quella che fa riferimento a persone rudi provenienti dal contado, nel basso Lazio e in Campania, “con la fune” per assicurare ai carri la merce da vendere o da trasportare e gli animali. Villano e villanzone fanno direttamente riferimento all’abitante della villa, cioè della campagna, e il romanesco buro o burino era il nome dato ai contadini romagnoli che andavano a lavorare la terra nell’agro romano.

Ogni epoca ha il suo epiteto per definire il bifolco. Nel linguaggio giovanile sono sinonimi: truzzo, tamarro, grezzo, zarro. Tutti termini che associano alla bassa condizione sociale dell’individuo che viene così designato il suo tentativo di essere come coloro che hanno maggiori possibilità, imitandone look e abitudini fino all’eccesso e alla pacchianeria.

Insomma il bifolco, e tutti i suoi accoliti sinonimici, è un tipo terra terra, è proprio il caso di dire. È il tipico campagnolo o montanaro inurbato, che ha portato con sé abitudini e tic del proprio mondo d’origine. Lo spaesamento è inevitabile, così come altrettanto inevitabile è la percezione di diversità da parte di chi ha stili e atteggiamenti diversi.

Ma quando è accaduto che gli appellativi riferiti al mondo agricolo hanno perduto l’allure poetica e bucolica per assumere una connotazione negativa? Forse con l’avvento della società industrializzata? O molto prima? Perché i pastori e i mandriani cantati negli antichi poemi didascalici come Le opere e i giorni di Esiodo, le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio sono diventati macchiette, personaggi gravati dallo stereotipo che li vuole rozzi e incivili?

Certo, già Omero considerava il gradino umano più basso quello del bifolco, inteso come ignorante. Già nelle poesie di Mosco, poeta greco del II secolo avanti Cristo, tradotte da Leopardi nel 1815, il bifolco era il giovane pastore fatto oggetto di scherno dalla bella Eunice che lo considera troppo rozzo e vile per farle la corte: «Sprezzo rustici amori, io non conosco/Che vezzi di città».

Il tipo dai modi alquanto grossiers era già quello rappresentato da Giulio Cesare Croce all’inizio del Seicento nel Bertoldo, il classico contadino dalle scarpe grosse e dal cervello fino. Ma poi, nel tempo, il villano/buzzurro/bifolco ha perso il cervello fino e ha indossato le scarpe da città, con il risultato di essere magari meglio vestito ma con il cervello molto meno fino.

Quando, nel 1930, Ignazio Silone scrisse Fontamara identificò nel cafone il contadino rozzo ma anche innocente, appartenente a un sottoproletariato per il quale l’autore prevedeva, erroneamente, chances di emancipazione sociale. Cafone è invece rimasto un termine spregiativo, così come bifolco e gli altri nomi riferiti a lavoratori della terra.

La volgarità del bifolco, oggi, è quasi tutta interiore, risiede nella mentalità più che nell’aspetto, nel modo di esprimersi più che in quello di atteggiarsi. Si può essere bifolchi con tre lauree, in abito da sera e con la Ferrari. L’omologazione, infatti, può essere solo esteriore perché – come diceva Totò – «signori si nasce».

Bifolco (o Boote) è anche il nome di una grande costellazione dell’emisfero boreale, dove si trova la quarta stella più brillante del cielo, Arturo, osservabile da tutte le zone popolate della terra. In questo caso il grezzo guardiano di buoi può vantarsi di custodire tra i suoi un astro che guida gli umani meglio di tanti altri, inutili, raffinati oggetti presenti in cielo e sulla terra.

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