LA PAROLA

Bolivariano

Raccontano le cronache minori che nel febbraio scorso ignoti ladri-patrioti hanno rubato la spada di Simòn Bolivar scardinandola nella notte dalle mani della statua del Libertador nell’omonima piazza di Bogotà.  È questo l’ennesimo furto dell’ennesima reliquia nella storia del continente. Cominciò nel lontano 1974 il fino allora sconosciuto gruppo di guerriglia urbana M-19, che mise il sigillo alla sua nascita scassinando la teca dell’eroe nel museo della capitale colombiana.  La spada, che forse era una copia, fu riconsegnata allo Stato nel momento della resa guerrigliera, dopo venti anni e qualche migliaio di morti ammazzati.

Con il gusto tutto latinoamericano per la parafernalia eroica e l’arrugginito armamentario patrio, Hugo Chavez sfoderò l’antica durlindana davanti alla folla esultante convocata in piazza Miraflores per la sua quarta elezione plebiscitaria a presidente del Venezuela.  Era il 2012, il colonnello combatteva l’estrema battaglia senza speranza contro la malattia, e gli fu dunque risparmiato lo spettacolo di un Paese che sprofondava in un abisso senza fondo di miseria, violenza, disperazione e mortuaria esaltazione.

Chavez, ultimo caudillo in un continente che sembra condannato a ripercorrere gli stessi sentieri accidentati della storia, aveva da tempo cambiato il nome ufficiale della nazione, aggiungendo un piccolo, grande aggettivo. Non più Repubblica del Venezuela, ma Repubblica bolivariana del Venezuela. Per intenderci, è come se qualche nuovo leader sovranista volesse cambiare il nome del nostro disastrato paese in  “Repubblica garibaldina d’Italia.”

Dunque, bolivariano. Anche Nicolàs Maduro, che in vita di Chavez fu suo autista e impiegato tuttofare, ha sfoderato la spada di Bolivar davanti alla folla festante, circondato da decine di generali, avvolto nella fascia tricolore, dopo le elezioni accomodate che lo hanno incoronato presidente senza rivali e senza opposizione per la seconda volta.

Ma, presidente di che? Il Venezuela è ormai un campo di macerie. Lasciamo parlare Martin Caparròs, un giornalista del Paìs che ha pubblicato un reportage da brivido sulla vita ai tempi di Maduro (“Caracas, la Ciudad Herida”): «A Caracas quasi niente funziona. I lampioni delle strade, per esempio. Qui le notti sono notti di altri tempi, quando il sole tramonta e ogni strada è una trappola tenebrosa. Per la via, fantasmi: la miscela di miseria e paura è insopportabile. Caracas si direbbe una città in guerra, solo che la guerra non c’è. Alcuni scrivono Carakistàn, altri Caraquistàn, altri ancora Caracastàn, ma l’idea è sempre la stessa. Un luogo che è diventato estraneo, una declinazione del disastro».

Bolivariano, tutto, nella retorica di Hugo Chavez, doveva essere bolivariano: il petrolio, che oggi si fatica ad estrarre per incompetenza e saccheggio, la moneta, che nelle sue fantasiose versioni di Bolivar nuovo, fuerte e soberano vale oggi meno della carta straccia, i gruppi di intervento patriottico, che sono diventati squadracce di bastonatori e peggio. E sarà, ahimè, bolivariano anche il prossimo tracollo.

Proprio a Caracas era nato il Libertador, il 24 luglio del 1783.  Ma gli intrighi e i tradimenti di un continente che non voleva essere liberato lo incalzarono fino alla morte – a nemmeno cinquanta anni – tra le paludi caraibiche di Santa Marta. «In quanto all’eroico e sventurato Venezuela, i suoi rivolgimenti sono stati così rapidi e tali le sue devastazioni, che l’hanno ridotto a una miseria assoluta e a una solitudine paurosa…». Così parlò, errante e fuggitivo in Giamaica, Simòn Josè  Antonio de la Santìsima Trinidad Bolivar Palacios Ponte y Blanco:  era il 1815,  e questo lamento funebre sembra scritto oggi.