LA PAROLA

Bontà

In questi tempi grami, pensavamo fosse una parola destinata a uscire definitivamente dal vocabolario. E, invece, a disseppellirla da sotto la montagna di scorie del menefreghismo, dell’opportunismo, del prima noi/prima io, è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel tradizionale discorso di fine anno trasmesso a reti unificate e guardato su tutti i devices. Ha detto proprio bontà, una parola che è esplosa come una bomba, più dei razzi di Capodanno, tra gli italiani che stavano per sedersi a tavola per il cenone di San Silvestro.

No alla «tassa sulla bontà», ha detto Mattarella in riferimento al raddoppio dell’Ires per gli enti no profit, entrato inopinatamente nella manovra finanziaria votata agli sgoccioli del 2018. L’Italia si è fermata. Bontà? Ha osato pronunciare proprio questa parola il capo dello Stato? E così, la parola da libro Cuore o da film di Frank Capra è finita nei titoli di tutti i giornali. Ma, viene da chiedersi, come ci siamo ridotti se arriviamo a stupirci per l’utilizzo di questo termine?

Secondo il vocabolario Treccani, bontà significa «l’essere buono; carattere di chi è d’animo buono e gentile, e particolarmente di chi, sensibile alla sorte degli altri, cerca di procurare loro tutto il benessere possibile e di evitare tutto ciò che li può fare soffrire». In effetti, in tempi di cattivismo spinto, tale definizione suona fuori luogo, stride come il gesso sulla lavagna. Scriveva Tolstoj: «Essere buono e vivere una vita buona significa dare agli altri più di ciò che prendiamo loro». Ecco, appunto.

Oggi essere buoni non è di moda, anche perché si rischia di essere additati come buonisti, cioè ostentatori di buoni sentimenti per secondi fini, che è poi il contrario dell’essere buoni. La bontà è una virtù morale e quindi non tutti la possiedono, o meglio non tutti sanno esercitarla. Nella vulgata popolare spesso bontà fa rima con coglionaggine, mentre invece quasi sempre va a braccetto con l’intelligenza.