DAILY LA PAROLA

Boresso

In veneziano indica il ridere a crepapelle, in frase negativa vuol dire non averne voglia

Non ci sono farmacie a Boresso, neppure cinquanta anime, una frazione del comune di Camponogara, Venezia. Più uomini che donne, pare, e nessun senzatetto. Chissà se sono felici, chissà se ridono spesso: con un nome così, se lo aspetterebbe chiunque.

Boresso è una parola magica e allegra, dall’etimologia controversa e misteriosa, che in veneziano (ma anche nel resto del Veneto, soprattutto nella forma verbale imboressarse) sta a definire un riso irrefrenabile e sincero, contagioso e defatigante, ma liberatorio. «Co te ciapa el boresso, te va a tòrsio in canal» ammoniva un cartello appeso fino a qualche anno fa in un bàcaro, un’osteria a Dorsoduro (quando ti prende la ridarella, non ti accorgi neppure di finire in canale), dove la componente etilica aveva di certo la sua rilevanza. Come non ripensare alla celebre scena del Mary Poppins disneyano, con lo zio Albert che – per il gran ridere, il “gas esilarante” – finisce per invitare gli ospiti a prendere il tè sul soffitto? Chi non ricorda la gamba di legno di nome Smith, o lo sguardo di riprovazione estrema della bambinaia “semplicemente perfetta”?

Il riso incontenibile – con buona pace di Mary Poppins – agita e scuote gli esseri umani, così come il vento di bora muove con violenza le onde del mare e le chiome degli alberi; per questo, è probabile che il termine boresso venga da lì. Tuttavia, un dubbio s’insinua negli studiosi più attenti: no gaver boresso di fare qualcosa sta per “non avere voglia”, “non sentirsela”. Più che il vento sconvolgente, entrerebbero così in gioco la volontà, l’energia vitale: «No go boresso de vegnirte drìo», ossia “non ho voglia, non me la sento di seguirti, o di appoggiarti”. Molti ricordano (tra l’ironico e il nostalgico pre-social) i cartelloni elettorali a Venezia che un candidato, già perdente in partenza, aveva imbrattato con la vernice rossa: «No go boresso de ‘ndar vanti», cioè “Non ho voglia di proseguire”. Qualcuno, rigorosamente in nero, gli aveva risposto sugli stessi cartelli: «Cori, va, ma no ti ga na casa?» “e allora vai, non hai una casa?”, indicandogli la via più breve per andarsene a quel paese. Boresso ghe vol! sta anche per “bisogna proprio averne voglia”, detto di faccenda pesante o noiosa.

Qualcun altro collega boresso ad un’altra parola veneziana, preferibilmente estiva, da bagni in mare o in laguna, il boro (anche se i bori ad antifascisti ed ebrei avevano ben altro significato durante il Ventennio, e ci scappava il morto). Boro è il tuffo, volontario o indotto, in acqua, da cui si fa fatica a riemergere, proprio perché qualcuno ti tiene sotto. Se ne esce senza fiato, come quando si ride a lungo.

Che c’entri tutto questo con Boresso, frazione di Camponogara, è un mistero. A meno che quelle cinquanta anime non conoscano il segreto della felicità, e se lo tengano stretto, come la gamba di legno di nome Smith dello zio Albert.

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