LA PAROLA

Calascinni

L’impatto con questa parola l’ho avuto da ragazzo in estate. Qualche giorno fa mi è balzata alla mente, grazie a un giovane artigiano che lubrificava le serramenta del grande portone chiodato nel cortile di Palazzo Vecchio a Firenze; somigliava a Cìcciu (Francesco), un mio conoscente alto e magro, soprannominato: “calascìnni” (saliscendi).

Ragazzi e ragazze ogni anno, durante le vacanze scolastiche, finivamo nelle botteghe artigiane del paese, con nelle orecchie l’eco della predica fatta dai genitori:

«Macari ca passàsturu, non putiti stàri a gghiucàri stràti stràti da matina a sira! ‘U sapìti a sèntiri, si o no? Vi n’ata ìri o màstru/a ppi ‘nsignàri ‘nmistèri, ca na vita, cu chiù sapi chiù vali
(Anche se siete stati promossi, non potete stare a giocare per le strade dalla mattina alla sera! Ci state a sentire, sì o no? Ve ne dovete andare da un maestro/a per imparare un mestiere, che nella vita, chi più sa più vale!).

Mia madre consigliava il sarto, «un travàgghiu pulitu» (un lavoro pulito) diceva. Mio padre non era d’accordo e deciso le rispondeva: «Ma no, macari ca si llòrda evi megghiu ‘u miccànicu» (ma no, anche se si sporca è meglio il meccanico). Contraddicendoli, d’istinto scelsi ‘u falignàmi (il falegname).

Negli anni Sessanta non esistevano, né il Cpo (Contratto di prestazione occasionale) né il Voucher. Con la scusa di fare un piacere ai genitori e dagli stessi autorizzati, gli artigiani ne approfittavano senza rispettare le regole sul lavoro minorile. Anche i veri apprendisti, che per vari motivi lasciavano la scuola, subivano il solito trattamento.

Per qualche spicciolo domenicale rifinivo, per tutta la settimana, con la carta vetrata avvolta in una saponetta di sughero, le tavole odoranti di resina. Impolverato di segatura tentavo, su suggerimento degli adulti di «…rubare il mestiere con gli occhi». Avevo tredici anni quando, per la prima volta, il màstro mi porse un calascìnni per montarlo da solo. Lo rivedo ancora tra le mani e giocherellandoci sento il clic clac. Emozionato per la fiducia e incuriosito, timidamente gli chiesi:

«Principali, ma si ‘stu calascìnni macàri ‘cchiana (… anche sale), picchì si ghiamma calascìnni?» Lapidaria la risposta: «E chi mìnchia ni sàcciu ! ‘mmìtulu strittu e spitùgghiti!» (… Avvitalo stretto e sbrigati! )

Lui non lo sapeva, successivamente l’ho chiesto ad altre persone, genitori compresi, ma nessuno mai me lo ha saputo dire. Il calascìnni, abbassandolo, si inserisce nel foro predisposto sulla soglia degli infissi. Sia esso fatto di ferro, di ottone o di acciaio, a vista o nascosto, applicato da sempre nei sistemi di chiusura, è stato ed è un elemento indispensabile. Ai giorni nostri è azionato con la chiave nel deviatore centrale della serratura e il termine è stato sostituito da “paletto” o “asta”.

In realtà esiste nel mio dialetto la parola chianascìnni, più attinente all’italiano saliscendi, che viene usata in altri contesti. L’ho citata più volte, sempre nella stessa giornata, rivolgendomi agli amici siciliani che accompagnavo in giro per Firenze. Può servire da esempio: per raggiungere il famoso Piazzale Michelangelo, c’è sempre un chianascìnni incessante di auto e di bus per l’alberato Viale dei Colli, da dove, oltre al suggestivo panorama della città, per restare in tema, si scorgono artistici cancelli in ferro battuto, veri capolavori forgiati negli anni dai maestri fabbri fiorentini, con robusti calascìnni a proteggere le sontuose ville nobiliari, alcune trasformate in lussuosissimi alberghi. È un chianascìnni di turisti che, calpestandoli, levigano i 463 scalini secolari su e giù per la Cupola del Brunelleschi, con la paradisiaca sosta sul ballatoio ottaganole all’interno del Duomo, dove l’anima sublimata si perde tra gli affreschi del Giudizio Universale del Vasari.

È un chianascìnni di persone anche per la caratteristica e antica strada di Costa San Giorgio. L’ho fatta la settimana scorsa per visitare la mostra del fotoreporter internazionale “Steve McCurry, icons” a Villa Bardini. Suggestionato dalla forza espressiva delle immagini esposte e tra queste, ancora una volta folgorato dallo sguardo de «la ragazza afgana», vista anni fa sulla copertina del National Geografhic, pensieroso raggiungevo l’uscita alle 19,00 in punto, con lo schiocco del calascìnni  abbassato, col piede, dal custode.

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