DAILY LA PAROLA

Camaleonte

Camaleontica politica! C'è chi si allea con la qualunque facendo finta di passare da lì per caso, ci sono nuovissimi leaders che in pochi mesi si cambiano giacca, cravatta e mutande e giurano di essere sempre gli stessi di allora, di ieri, di sempre...

Era la sigla di testa ad affascinarmi: quella marcetta trionfale, quel rullo di tamburi che sfumava negli arpeggi di un minuetto. E poi: il lusso degli arredi, le ricchissime livree, le parrucche smisurate. Del resto, cosa pretendete da me? Ero poco più di un bambino, nel 1964, quando la Rai nazionalpopolare mandava in onda lo sceneggiato “I grandi camaleonti”: regista Edmo Fenoglio, attori di grido, uno straordinario testo del commediografo Federico Zardi.

Otto puntate otto, quasi un mini-serial, ambientate nella caotica Francia degli anni successivi alla Rivoluzione: il crudele passaggio dalla Repubblica all’impero, dall’illusione della libertà borghese ai fasti autoritari di Napoleone Bonaparte. Il fascino dell’uomo solo al comando che sconfigge, smentisce e annichilisce i generosi fasti assembleari.

I camaleonti del titolo sono individuati nell’ esercito dei trasformisti – da Paul Barras, a Joseph Fouchè, a Charles Maurice Talleyrand – che non esitano a rinnegare gli ideali giovanili, trasformandosi da rivoluzionari ad oligarchi. E anche questo forse affascinava le mie tenere “antenne” di giovanissimo telespettatore: il progressivo slittamento da una posizione verso il suo rovescio, il venir meno – nella stessa persona – di rocciose convinzioni e l’approdo a lidi sconosciuti e opposti.

Il miracolo della politica! Un individuo che non è più lui, ma il suo contrario, e l’eleganza con cui questa mutazione può essere non solo giustificata, ma rivendicata con orgoglio. Come se io bambino mi svegliassi da un breve sonno per scoprirmi all’improvviso trasformato nel mio odioso compagno di banco. E peggio: difendessi di fronte ai genitori e agli insegnanti allibiti questa mia trasformazione, giurando di essere sempre stato “quel” mio compagno di banco.
Insomma, quello sceneggiato in bianco e nero era una bella lezione di storia e di politica. Una lezione alla francese, per di più, distillata in un Paese dove il trasformismo politico (il camaleontismo) ha dato nel corso dei secoli grandi prove di sé. Veniamo all’oggi, testimoni di una mesta cerimonia: migliaia e migliaia di parigini in fila composta per rendere omaggio alle spoglie mortali di Jacques Chirac, l’ex presidente della Repubblica, morto pochi giorni fa alla tenera età di 86 anni.

L’uomo che tutta la Francia piange in queste ore, per l’intera sua vita politica ha portato con orgoglio la medaglia di “camaleonte.” Comunista in gioventù, deputato da sempre, segretario di stato con De Gaulle presidente, fondatore del movimento politico gollista, sindaco di Parigi per diciotto anni, primo ministro sotto la presidenza del liberale Valery Giscard D’Estaing, sfidante per l’Eliseo del socialista Mitterrand, e poi addirittura primo ministro dello stesso Mitterrand. Fallisce per due volte la scalata alla Presidenza (“i francesi non amano mio marito”, commentava amareggiata la moglie Bernardette) ma trionfa al terzo tentativo.

Ebbene, quest’uomo che volle fortissimamente “farsi re”, altrettanto fortissimamente ha sempre rivendicato una continuità tra gli ideali del suo periodo comunista e tutta la sua vita politica successiva, si è richiamato insieme a un “laburismo alla francese” e poi a un “liberalismo alla francese”, arrivando a rivendicare la lezione del radical-socialismo di inizio Novecento. Tutto in nome del potere: Il presidente Chirac che commemora con alcuni test nucleari il 50esimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, è lo stesso Chirac che in gioventù firma l’appello di Stoccolma contro le bombe atomiche.

Ma qui si parla di giganti del camaleontismo. Anche in questo caso, l’Italia si conferma la cugina povera della Francia, a partire dal livello dei personaggi. Per un Berlusconi che nel nostro Paese ha imperversato per oltre venti anni, più che di “trasformismo” di può al massimo parlare di “travestitismo”. E per un Matteo Salvini che da adolescente aderiva ai sinistrissimi centri sociali di Milano si tratta al più di una melensa nota di colore.

Piuttosto, nel nostro Paese è l’intera massa politica (la “terza Repubblica”, per chi scrive sui giornali di riferimento) a subire una torsione che potremmo definire “la febbre del camaleonte”. Non sono più singoli leaders politici che si scoprono all’improvviso incarnati nel loro opposto, ma sono intere formazioni partitiche che in un batter di ciglia vengono sbattute (si sbattono) da un angolo all’altro dello spettro politico.

Nascono partiti come nuove costellazioni, muoiono partiti come stelle spente, scompaiono formazioni politiche come inghiottite da enormi buchi neri. Dopo aver saccheggiato campi e giardini (dal garofano alla quercia alla margherita) si escogitano nomi di fantasia, in cui l’Italia si fa “forza” o si scopre ancora “viva”, o si appella ai “fratelli”. Ogni formazione o lacerto di formazione ha un colore, ogni coalizione una combinazione di colori. C’è un partito (pardon movimento) che si allea con la qualunque facendo finta di passare da lì per caso, ci sono nuovissimi leaders che in pochi mesi si cambiano giacca, cravatta e mutande e giurano di essere sempre gli stessi di allora, di ieri, di sempre. Il Parlamento sbanda come una goletta in mezzo alla tempesta e per impedire la transumanza di interi manipoli, politici scellerati propongono multe e balzelli, come il vigile che alza la paletta negli antichi film di Alberto Sordi. Lo spettro politico italiano è un’orgia di colori che farebbe impazzire un camaleonte.

Afferma qualche studioso di storia televisiva che nel 1964 lo sceneggiato di Edmo Fenoglio alludeva discretamente ai trasformismi che in quegli anni agitavano la politica nazionale. Moro e Nenni, il centro-sinistra alle porte, la parabola discendente del miracolo economico, l’incertezza di un partito comunista in mezzo al guado dopo la morte di Togliatti. Francia del Settecento, Italia degli anni Sessanta: a rivederli ora quei personaggi potenti, quei grandi di Francia (e d’Italia) impegnati in fragili trame e complotti di corte fanno quasi tenerezza. Tutto è mutato alla radice, ma non l’essenza della questione. Come sussurra il navigato Barras all’ ambizioso Fouchè: “la politica, mio caro, è una brutta bestia…”

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