LA PAROLA

Carrettu

In questi giorni, un noto marchio della grande distribuzione alimentare italiana, ripresenta ai clienti la “Festa degli agrumi”. Nella colorata scenografia espositiva del reparto frutta, attrae ‘n carrettu (un carretto) simbolo del folclore siciliano, carico di arance, limoni e mandarini. Sostituiti dai veicoli a motore, antichi esemplari di carretti, grazie alle Pro Loco, sono esposti nei musei civici, a salvaguardarne non solo la storia e la bellezza artistica, ma anche le parole dialettali, alcune intraducibili, usate dagli artigiani del tempo, per definire i materiali in essi assemblati.

Don Larenzu (Lorenzo), un valente carritteri (carrettiere), con calma le citava una a una, agli alunni delle quinte elementari che lo intervistavano sul carrettu:

«Questi sono i barrùni – diceva – quello è il fusu con sopra, in ferro battuto, lo vedete? Il casciafùsu. Questo si chiama masciddàru e c’è pitturato Ollàndu con lo scudo e la tullindàna che combatte i saracìni, dall’altro lato c’è la bella Angelica a cavallo. Quello dietro è il purtèddu, si può togliere e mettere, così! Questo è il tavulazzu, dove mi siedo e sotto c’è ‘u ritùni, per il mangiare e altre cose. In quei cròcchi virdi e russi, ci sono appesi, ‘u lùmmi, ‘a sacchìna con l’orzo per il mulo e un armìggiu…». Alla fine, col sorriso negli occhi, prima di salutarli, aggiungeva: «Se volete scrivere i versi di una canzone che conosco: «Bbedda, cu ‘sti capiddi ‘ncannulàti / supra la bbianca frunti li tinìti;/d’oru e d’argentu l’aviti ‘ntrizzàti / li rrai di lu suli mantinìti» (Bella, con questi capelli torcigliati/ sopra la bianca fronte li tenete; d’oro e d’argento li avete intrecciati/ i raggi del sole mantenete), dopo ve la canterò».

Ah… i carritteri! Uomini vigorosi e sentimentali, ogni giorno sfidavano il tempo e partivano. Lasciavano i fondaci prima dell’alba col passo cadenzato dei muli al ritmo delle cianciàne (sonagliere). I carretti, dai grandi cerchioni di ferro, stracarichi di derrate, formavano lunghe file per le strade polverose, solcavano scorciatoie già dissestate dai ciottoli sconnessi dei torrenti. Nell’attraversare i paesi etnei, i carrettieri cantavano con voce struggente, per sciogliere il cuore alle picciòtte (ragazze) nei chiari di luna.

La stessa luna, che cullava spasimi d’amore alla fanciulla di «c’è la luna ‘mmenzu ‘o mari». L’esilarante canzone goliardica, nell’ironico refrain, fa dubitare la madre che non vuol dare in sposo alla figlia nemmeno il carrettiere, perchè all’improvviso può impazzire e, frusta alla mano, staccare il mulo e metterla a tirare il carretto:

« C’è la luna ‘mmenzu ‘o mari
mamma mia ma ‘maritari.

– Figghia mia a ccu t’ ha dari ?
– Mamma mia pènsici tu.

– Si ti dugnu ‘ncarritteri,
iddu va, iddu veni
sempri ‘a zzòtta ‘a manu teni,
si ci sfèrra la fantasia:
spàia ‘u mulu e ‘mpàia a tia.»

Ora sui carretti siciliani, i pochi artigiani rimasti, riproducono cromatiche primavere con fregi e corolle intarsiate sui raggi delle ruote, forgiano arabesche figure allegoriche in ferro battuto e col fascino di sempre fanno rivivere antiche leggende, per onorare le sagre paesane tra le friscalittàte (zufolate) e le travolgenti tarantelle dei gruppi folcloristici. I turisti applaudono lungo il percorso delle fastose parate, fotografano i possenti cavalli, imbellettati da finimenti sontuosi, che nitriscono, tra le stanghe dei carretti, al riverbero del sole calante. Dai testali e dai gropponi luccicanti, si innalzano variopinti pennacchi di uccelli che smuovono l’aria, quasi a riprendere il volo, nei cieli tersi del Sud.

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