IL PERSONAGGIO

C’era una volta Tony Blair

Ascesa e caduta di un big della politica internazionale, a soli 41 anni leader del Partito laburista e, 3 anni dopo, Premier britannico dopo 18 anni di governi conservatori, primo ministro Lab che si è mantenuto più a lungo in carica, l’unico che abbia condotto il partito alla vittoria per 3 volte consecutive. Storia di un personaggio che ha fatto sperare la sinistra non solo nel Regno Britannico e che avrebbe potuto svolgere un ruolo chiave nel grigio scenario delle istituzioni europee: Tony Blair, conosciuto di persona da chi scrive.

Tony Blair in visita a Firenze nell’agosto del 1996, prima di diventare Premier, accompagnato da Paolo Ranfagni di TESSERE

La recente scomparsa di Martin Mc Guinness, il comandante dell’Ira che, dopo un ventennio di guerra, aveva concluso con Tony Blair il negoziato di pace del 1998, rimanda a uno dei più grandi successi del protagonista di quegli anni indimenticabili, nel bene e nel male, di governo del Labour Party. Anni segnati da grandi attese e profonde delusioni. Anni che comunque restano, ad oggi, il meglio della politica laburista, come testimoniato dalla tripletta di successi elettorali consecutivi. Blair aveva promesso di vincere per tre volte e mantenne l’impegno, anche a sue spese, tanto che dovette passare il testimone a Gordon Brown negli ultimi tre anni della terza legislatura. Quanto al Labour, si sarebbe sciolto come neve al sole, senza più rialzare la testa.

Oggi di quegli anni e dell’operato di Blair non resta quasi memoria, a parte il tragico errore della partecipazione alla guerra irachena, responsabilità dalla quale non riuscirà più a liberarsi, abbandonato dal suo partito, boicottato dai competitori europei, fino alla definitiva messa al bando da parte della grande alleanza orchestrata da Angela Merkel, che gli sbarrerà la strada alla corsa per la presidenza del Consiglio europeo nel 2008. Operazione perfettamente riuscita, grazie alla partecipazione dei maggiori leader europei e non contrastata nei fatti, se non nelle parole, da David Cameron e dai Tories. Nessun paese, neppure il suo, si fidava di una personalità troppo spiccata, come quella di Tony Blair, per gestire i complessi rapporti di forza tra i paesi europei.

Eppure era proprio questa la grande scommessa di Blair, disegnare per il Regno Unito un ruolo centrale nella costruzione delle politiche europee, con pari dignità rispetto ai paesi fondatori. Assegnare a Blair la prima presidenza quinquennale del Consiglio avrebbe significato, in parole povere, disegnare un’Europa meno germano-centrica e quindi più disponibile a ricompattare europeisti ed euroscettici d’oltre Manica. Oggi possiamo tranquillamente sostenere, se pur col senno di poi, che, con Blair alla testa del Consiglio dal 2008 al 2013, Cameron non avrebbe avuto il pretesto per inventarsi il referendum sulla Brexit.

Ma le cose, come si sa, prenderanno un’altra strada. I soci fondatori opteranno per il belga Herman Van Rompuy, competente ma grigio burocrate, assolutamente inadeguato a rilanciare l’immagine europea, già offuscata e messa in discussione, soprattutto all’indomani del discutibile allargamento al blocco dei paesi dell’Est, i quali, a scanso di equivoci, si presenteranno a gamba tesa.

Cameron potrà così tirare il respiro di sollievo e brindare al superamento dell’intralcio costituito da Blair, cominciando subito a preparare la strategia che porterà allegramente alla Brexit.

Quattro anni prima, quando era ancora in sella e non si sognava di cambiare mestiere, Blair si era definito «appassionatamente pro-europeo». Eravamo all’indomani della prima grave crisi istituzionale europea, dopo che Francia e Olanda avevano negato l’approvazione alla Costituzione. Ma per lui, che si presentava a Bruxelles come presidente di turno, era anche la «crisi di una leadership politica, un fallimento di ampiezza strategica». Da qui il suo appello: «È arrivato il tempo di riconoscere che, solo cambiando, l’Europa recupererà la sua forza, la sua rilevanza, il suo idealismo e il sostegno dei cittadini». Continuerà a pensarla così anche dopo questi quattro inutili anni, in cui niente era cambiato. Per questo avrebbe voluto provarci lui a cambiare le cose. Ma è per questo che non gli sarà concesso.

Purtroppo la sua stella era ormai calata inesorabilmente, troppi errori e occasioni perdute in quei dieci anni con Londra legata mani e piedi agli Usa. Eppure pare un eccesso di zelo questo silenzio calato su di lui. Cos’è oggi il Labour se non una macchietta magniloquente e minoritaria, ad uso e consumo dei Tories, come si è visto nel referendum sulla Brexit?

Anche in quest’ultima drammatica occasione l’unico leader d’oltre Manica che si è speso per l’Unione è stato, ancora una volta, un Blair inascoltato. Triste fine per il condottiero di tante battaglie, rimasto prigioniero a vita della guerra irachena.

Tony Blair e sua moglie Cherie con Vannino Chiti quand’era presidente della Regione Toscana

Ho personalmente avuto occasione di incontrare Blair in due occasioni negli anni in cui sono stato capo dell’ufficio stampa della Regione Toscana, ed il primo risale al 1996, quando aveva già in pugno il Labour e stava per sferrare l’attacco finale alla poltrona di Primo ministro del Regno Unito. Nell’attesa delle elezioni che lo avrebbero visto grande vincitore, aveva deciso di regalarsi una vacanza, in pieno agosto, a San Gimignano, senza rinunciare all’inevitabile giornata fiorentina. Siccome teneva molto ai rapporti istituzionali, ritenne suo dovere passare a salutare il presidente della Regione che allora era Vannino Chiti. Fu così che fui incaricato di accompagnarlo agli Uffizi e all’Accademia, prima di spostarci alla sede della Regione, dove era prevista la colazione in onore dell’ospite.

Blair manifestò subito curiosità amicale e grande interesse, sparando domande su tutto quello che vedeva e non fu difficile dialogare con lui. Era particolarmente curioso sul ruolo delle regioni italiane, ma non dimenticava mai il suo interesse per il calcio. La prima cosa che mi colpì fu la sua capacità di attrarre l’attenzione, nonostante nessuno fosse stato informato della visita.

Agli Uffizi andò tutto liscio, c’era ancora poca gente per il gran caldo e l’incognito non corse rischi. Ma dopo, lungo il Corridoio Vasariano, qualcuno cominciò a squadrarlo e a salutarlo, probabilmente un inglese. Poi, via via, erano sempre più quelli che lo riconoscevano, la maggioranza erano italiani e gli facevano gli auguri per le prossime elezioni.

Mentre si andava all’Accademia la musica cambiò, un gruppetto di persone lo seguiva ormai lungo la strada dialogando, finché non comparvero anche alcuni fotografi e alla fine qualche giornalista.

Alla sede della Regione lo attendeva il presidente. I due si abbracciarono amichevolmente e Tony si giustificò per averlo costretto all’impegno agostano, ma spiegò che era il suo primo viaggio in Toscana e avrebbe reputato sconveniente non andare a salutare la massima autorità regionale.

Alla fine del pranzo, Chiti fece promettere a Blair che sarebbe tornato a Firenze come Premier l’anno successivo. Andò davvero così. Anzi, in quella seconda occasione non si tirò indietro a domande che gli venivano poste. Così a una domanda che gli fu rivolta su quale fosse l’obiettivo più importante che attribuiva al suo Premierato, nello stupore generale dei convitati, rispose: «L’obiettivo a cui tengo di più, ma che proprio per questo ancora non posso rendere pubblico nel mio paese, è l’ingresso del Regno Unito nell’euro, magari non alla fine di questa legislatura, ma senz’altro prima del mio abbandono».

Dopo questa “promessa” mancata Tony Blair sarebbe tornato a Firenze anche in altre occasioni. Ma ormai le cose cominciavano a complicarsi. I tabloid inglesi erano diventati sempre più aggressivi e lo attaccavano giorno e notte per la scelta delle vacanze in Toscana e lui doveva fare i conti con questa inattesa novità. La luna di miele con la stampa inglese era decisamente esaurita, anche se il premier laburista era ancora ben saldo in sella.

In questi primi anni Blair si permette di ribattezzare “New” il Labour per non confonderlo con quello del passato, di stravincere le elezioni ponendo termine a 18 anni di governi conservatori, ma anche di prenotare altre due vittorie elettorali consecutive per il futuro. Nel 1998 compie il miracolo di mettere d’accordo cattolici e protestanti nord-irlandesi, nel 1999 guida da protagonista l’intervento nel Kosovo. Tutto quello che tocca si trasforma in oro e nel paese balcanico il nome “Blere” si diffonde in un lampo, come riconoscimento del suo impegno per l’indipendenza dei Kosovari.

Le cose gli vanno bene e forse comincia a sentirsi invincibile. Da allora si dedicherà con sempre maggiore impegno alla politica internazionale, trascurando malamente le attese popolari di chi da tempo attendeva dal Premier un rovesciamento delle odiate politiche di Margaret Thatcher. Niente di tutto questo. Cominciano così le prime contestazioni.

Nel 2003 si arriva alla rottura vera e propria. Blair cade colpevolmente nel trabocchetto di Bush e s’impegna nell’incomprensibile avventura irachena. La fretta con cui aderisce all’invasione americana è gravissima, non tiene conto degli interessi del Regno Unito, non verifica neppure le alternative pacifiche possibili e soprattutto si basa su informazioni di intelligence non verificate, senza prevedere alcuna strategia per il dopoguerra. Blair è pienamente consapevole delle conseguenze della guerra in Iraq, a partire dalle minacce terroristiche di Al Qaida contro il Regno Unito, eppure resta inchiodato alle sue responsabilità, consapevole del rischio che si accolla.

Forse è eccessivo, come qualcuno ha fatto, apostrofarlo come criminale di guerra, ma gli errori inanellati gli verranno fatti pagare nel tempo, fino a costringerlo al ritiro tre anni prima della fine della terza legislatura.

È davvero un peccato che Tony abbia voluto sprecare così malamente la grande occasione che gli si è presentata. Quasi un tradimento per tutti coloro che lo avevano seguito, magari illudendosi davvero nella mitica terza via, che consisteva in una profonda svolta riformista della sinistra britannica. Oggi, vedendo all’opera l’inutile Labour di Jeremy Corbyn, di fatto pro-Brexit, si può valutare quante e quali occasioni siano andate perdute. E quanto grave sia la responsabilità di colui che avrebbe dovuto essere il più grande rappresentante di un riformismo morto nella culla o poco dopo.