«Che cosa resterà di questi Anni Ottanta?» Così cantava Raffaele Riefoli, in arte Raf, proprio sul finire del decennio. I nati in quella stagione sono oggi donne e uomini maturi, che hanno la mia stessa età d’allora mentre io m’incammino sul sentiero che solo gli sciocchi han paura di chiamare vecchiaia e perciò si divertono a trascinare sempre più in là. Chissà se anche per chi li ha vissuti nella piena giovinezza quegli anni «sono già diventati graffiti e ognuno pensa a sé» come dicono le parole della canzone di Raf, che a me paiono tutt’altro che banali: «Anni allegri e depressi di follia e lucidità, anni veri di pubblicità».
Una mostra ripropone a Milano quella stagione. Si intitola Reality 80 ed è stata realizzata nella galleria del Credito Valtellinese del refettorio della Stelline, in corso Magenta 59 a Milano, a due passi dal cenacolo vinciano. Resterà aperta sino al 23 febbraio (dal martedì al venerdì dalle 14 alle 19 e il sabato dalle 9 alle 12. Chiuso domenica e lunedì. L’ingresso è libero).
La rassegna, curata da Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio, è un compendio davvero ben congegnato di ciò che le arti di quel tempo hanno concepito e realizzato. Milano è l’ovvio e naturale centro di più fenomeni culturali, artistici, sintetizzati nello slogan efficace quanto fuorviante della «Milano da bere». In realtà il lavoro di Leo Guerra e di Cristina Quadrio Curzio allarga gli orizzonti del periodo. Ne scaturisce un racconto fitto, accecante, carico di effetti speciali che non a caso Umberto Eco individuò come definizione del decennio.
Una miriade di frammenti che vanno dalla piramide di Filppo Panseca alle estati romane di Renato Nicolini e Giulio Carlo Argan, dalle sculture biodegradabili sino agli oggetti icone del design milanese. Un crescendo da capogiro che culmina con le divise da sfitinzia e da gallodidio dei paninari. Volti e pose che trovano una affascinante sintesi nella galleria con i 50 scatti di Maria Mulas.
In quest’universo da bere mi sento alla fine frastornato, ma gli autori della rassegna perdoneranno se il mio sguardo e la mia mente vanno altrove, com’è naturale che sia, ripensando a quel decennio, fitto di avvenimenti decisivi quant’altri mai, inaugurati con l’elezione di Ronald Reagan. Chi l’avrebbe mai detto, pensammo allora, che un non eccelso attore di non eccelsi film sarebbe diventato il 40° presidente Usa? (Ancora non sapevamo che cosa ci riservava la seconda decade del Duemila). Toccò proprio a Reagan, dopo un quinquennio di rispettivi boicottaggi olimpici (Mosca 1980 no degli Usa; no del 1984 dell’Urss a Los Angeles) tendere la mano a Gorbaciov e sancire la fine della guerra fredda.
Come dimenticare poi Schengen, la firma del patto che sancì la libera circolazione delle persone, preludio a Maastricht, con l’Unione europea oggi minacciata dall’onda populista ? E poi la marcia dei quarantamila, il craxismo, il Compagni, tutto sta cambiando de “L’Unità” in prima pagina. In tanto sconcerto, c’è forse da stupirsi se Nanni Moretti, nel suo alias, prof di matematica Michele Apicella, (Bianca, il film del 1984), si immergesse a torso nudo in un gigantesco barattolo di Nutella?
Ma tra i tanti fotogrammi del decennio così denso di mutamenti, ce ne sono alcuni che più di altri serbo nella mente. Rivedo così le celeberrime immagini di Berlino, del muro che si sta sgretolando, assalito dalla folla. Quel muro che per 28 anni aveva assurdamente tagliato in due una città, i suoi palazzi, le sue abitazioni, lacerato famiglie e affetti, con quell’insaziabile crudeltà di cui l’uomo è capace, spacciandola per il bene altrui.
Mi ritrovo nell’ufficio di capo redazione del “L’Unità” di Roma, nella frenesia di chi si sente testimone attivo di un evento che fa storia, a raccogliere le corrispondenze che via via stravolgono i menabò, modificano e ampliano titoli e testi sino a raggiungere, nella sola notte del 9 novembre, dimensioni di un affare epocale. Donne e uomini che danno l’assalto ai muri (muri perché due erano in parallelo) in un clima forse più di rabbia che di festa, sgretolando le folli barriere, erette con velocità pari alla sua distruzione, in una notte d’agosto del 1961.
È quella per me la notizia del decennio? Non ho dubbi, anche se, come sempre accade, la folla in delirio a Berlino era solo l’atto finale di quanto era accaduto negli anni e nei mesi precedenti. La miccia, come si conviene a ogni tragedia che si conclude in farsa, fu accesa da un grottesco botta e risposta tra il ministro della propaganda Günter Schabowski del dimissionario governo Honecker e il corrispondente italiano dell’Ansa Riccardo Ehrmann, proprio nel tardo pomeriggio di quel 9 novembre. Una stanca conferenza stampa si stava trascinando verso la fine, quando il giornalista chiese lumi a proposito del diritto a viaggiare dei cittadini dell’Est. L’espatrio può avvenire, disse il ministro, in un qualsiasi punto di transito tra le frontiere delle due Germanie.
«Dunque anche a Berlino?» Incalzò il collega.
“Sì. Sì” fu la risposta
«E da quando?»
«Beh, per quel che ne so, ab sofort (da subito, ndr)».
Quell’ab sofort in perfetto burocratese fu accolto dagli esterrefatti giornalisti con un attimo di perplessità prima della corsa frenetica verso le postazioni telefoniche. Allora, se non ricordo male, erano in pochi a potersi permettere gli ingombranti antenati dei nostri cellulari. La notizia fece il giro del mondo e in pochi istanti gli accessi all’Est furono presi d’assalto, a partire dal celeberrimo Checkpoint Charlie, la porta d’ingresso controllata dagli americani. Una gigantesca edicola, così la rammentavo allora, un budello che alla modica cifra di pochi dollari consentiva il passaggio ai turisti dalla Friedrichstrasse dell’Ovest all’Est.
Quel ciclone mi diede per qualche tempo la speranza che Gorbaciov davvero fosse riuscito nell’impresa e non che quella giornata fosse una verità, ma sempre dentro una gigantesca illusione, se non una bugia. Mi pareva che quel decennio, incominciato tragicamente in Italia, con la mattanza alla stazione di Bologna, 85 morti e oltre 200 feriti e prima ancora con l’assassinio del presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella, simbolo di un cambiamento sognato, potesse cancellare anche gli incubi di un Paese come il nostro, perennemente in preda ai suoi fantasmi.

Photo AFP
Fantasmi che si erano materializzati con la lunga stagione del terrorismo, da me vissuta da cronista e poi da capocronista a Milano, ogni mattina chiedendomi quando sarebbe arrivata la telefonata che annunciava l’ennesimo delitto “in nome del popolo” che avrebbe dato il via alla chiamata dei colleghi da inviare sul posto, alla tragica conta.
Mi sbagliavo, quella sera del 9 novembre. Forse, se avessi ben valutato il passato con la ragione e non con l’emozione, avrei capito il presente e il futuro: dieci anni fitti di misteri irrisolti, Ustica per tutti e della catastrofe nucleare di Chernobyl. Questo e non altro era lo squarcio del presente.
Da allora quel mondo è cambiato come una bussola impazzita. Non è un caso che nel bel mezzo del decennio si sia spenta anche la vivida luce di Enrico Berlinguer. Un uomo politico non esente da errori, ma ricco di una laica virtù mai più riproposta dalla sinistra: la capacità di trasmettere quel concentrato di idee ed emozioni che si chiama passione.
I punti cardinali del mondo, che esprimevano realtà consolidate, hanno perso da allora ogni significato, tanto da apparire intraducibili alle nuove generazioni: la cortina di ferro, i Paesi dell’Est, i blocchi contrapposti, la vecchia Urss, hanno lasciato il posto alla nuova Russia dello zar Putin, alla Cina del “capitalismo – comunismo” realizzato, all’America di un miliardario da quattro soldi.
Davvero, ha ragione Raf, quegli Anni Ottanta sono per me quasi ottanta anni fa.
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