LA PAROLA

Elzeviro

La parola elzeviro non può che riportarci ad un tempo in cui i giornali erano carta stampata, notizie del giorno, nevvero, ma, soprattutto, idee viaggianti e veri pezzi di bravura di sacerdoti della parola scritta, araldi della cultura, quel bene che, secondo Gadamer, se condiviso con altri si moltiplica, invece di diminuire.

Come riporta il Dizionario Treccani, l’elzeviro è un «articolo di fondo di un giornale, dedicato ad argomenti di carattere letterario, artistico, storico, erudito, spesso con taglio critico, così chiamato dal carattere tipografico in cui un tempo era stampato, usato ad Amsterdam dai tipografi Elzevier».

Gli Elzevier, antica famiglia di tipografi ed editori olandesi, esercitarono la loro attività tra il 1583 ed il 1712. Le loro edizioni erano autentici capolavori tipografici, che riproducevano i caratteri delle più antiche tipografie italiane e si contraddistinguevano per la loro nitidezza e finezza.

Proprio per queste caratteristiche l’11 dicembre del 1901 Alberto Bergamini scelse il carattere elzeviro per l’articolo principale della Terza Pagina del “Giornale d’Italia”, il reportage di Emilio Cecchi sulla Francesca da Rimini di D’Annunzio. L’elzeviro, infatti consentiva l’utilizzo di un corpo  tipografico ridotto, pur mantenendo una grande leggibilità per articoli molto estesi.

Ma fu un evento isolato: la Terza Pagina – come noi la conosciamo, benché per lo più sia stata spostata nel paginone centrale di un giornale – fu appannaggio del “Corriere della Sera” che introdusse l’elzeviro dal 1905, sotto la direzione di Luigi Albertini (di cui parla Gramsci in uno degli articoli presenti nel volume di TESSERE sulla sua attività giornalistica). Da allora, il nome del carattere fu adoperato per indicare l’articolo di apertura della “terza”: un pezzo dalla prestigiosa collocazione, affidato esclusivamente a scrittori affermati.

L’accesso all’elzeviro era dunque “Verboten” (vietato) ai giornalisti; soltanto nel dopoguerra poterono accedervi anch’essi. Esempi fulgidi di quella stagione restano, tra i tanti, Dino Buzzati ed Eugenio Montale, il quale poi raccolse in due volumi i suoi elzeviri scritti per il “Corriere”: Farfalla di Dinard e Autodafé. La chiara fama era dunque un requisito fondamentale per poter comporre un elzeviro, ma essa – come scrive Moravia in un racconto pubblicato “in terza” la domenica di un anno tondo del secolo scorso – non ha quasi mai la longevità dell’elegante carattere tipografico degli Elzevier, né la dignità e la visibilità che quella collocazione garantiva.

-Ti pare bello essere famosi?
– Io per essere famoso farei qualsiasi cosa, anche un delitto.
– Saresti famoso un pomeriggio. Con la seconda edizione dei giornali, scompariresti di nuovo nel buio.

Alberto Moravia. da Famosa, “Corriere della Sera”, domenica 23 agosto 1970

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