LA PAROLA

Ciaramedda

La delicata melodia della parola ciaramedda (zampogna), arriva puntuale nelle festività natalizie. Lo strumento a fiato, di origine pastorale, da secoli si è diffuso in Europa e in Italia, soprattutto nelle regioni centro meridionali. Il modello varia nella dimensione dell’otre, nel numero delle trombette in esso applicate e la quantità dei fori tonali. Malgrado la diversità strutturale, l’armonia della ciaramedda siciliana, in alcune zone chiamata anche sampùgna, è assimilabile alla cornamusa scozzese, alla musette francese e alla ciaramella di pascoliana memoria: «Udii tra il sonno le ciaramelle,/ho udito un suono di ninne nanne./Ci sono in cielo tutte le stelle,/ci sono i lumi nelle capanne…».

Altri tempi. Ai giorni nostri deprime udirle, in filodiffusione, quando spingiamo un carrello cigolante nel parcheggio del supermercato o mentre, distratti, rileggiamo il promemoria per la spesa, tra i bancali stracolmi di panettoni. Non consolano gli scaffali con artistici presepi, né le casette di cartapesta o le statuine di plastica a “prendi 3 e paghi 2” buttati alla rinfusa. Anche quest’anno addobbi natalizi, sempre più sofisticati, decorano le strade e le vetrine delle città. Gli abeti, sottratti alle foreste, sfolgoranti di luci, rimboscano le nuvole informatiche del web, nell’interscambio di selfie augurali.

Nel frastuono consumistico, sopite atmosfere religiose riaffiorano alla mente. Risento i rosari bisbigliati la sera dalla nonna, davanti al presepe sulla cassapanca, le litanie interminabili, le dolcissime nenie dialettali. Rivedo il cielo stellato, la bordura di arance e di mandarini, il laghetto di stagnola, l’aia e l’ovile sul prato odoroso di lippu e spinipùrgiu (di muschio e asparago spinoso). Impigliati qua e là, fiocchi di cotone per la neve e ‘nmuzzùni di cannìla ppi lu Bammineddu di cira (un mozzicone di candela per Gesù Bambino di cera), dalla fiammella tremolante, per rischiararlo nel buio della grotta di pomice.

Immobile, ‘mpasturèddu ciaramiddàru (un pastorello zampognaro) crettato, proiettava la sua ombra sul sentiero di segatura tra ieratici personaggi di argilla. Somigliava all’anziano pastore autodidatta, col gilet in pelliccia di pecora, che per tutta la Novena di Natale, alle cinque del mattino, seduto nella sacrestia, attraeva intorno a se, curiosi e vispi chirichèddi (chierichetti). Con magica gestualità, slegava lentamente un sacchetto di iuta e mostrava sorridendo la ciaramedda afflosciata. La smuoveva delicatamente alitando aria calda sulle ance, le sfiorava con l’unghia. Ccu ‘mpagghiazzèddu villutàtu (con il cencino vellutato) lucidava le svasature e le trombette inserite nel ceppo di piràinu (perastro) e a pieni polmoni gonfiava l’otre di pelle, mentre danzavano sui fori le dita rattrappite delle mani.

Per riprendere fiato, tappava il beccuccio di canna con il pollice scarno e sorridendo ci stuzzicava: «Avanti carùsi, facitimi sèntiri cu di vuàtri c’avi chiù ciàtu e si sapi sciusciàri, mi ‘iùta a unchiàri a ciaramèdda» («Avanti ragazzi, fatemi sentire chi di voi ha più fiato e se sa soffiare, mi aiuta a gonfiare la zampogna»). Non l’avesse mai detto! Un frenetico alzarsi delle mani, dal candore delle cotte orlate di merletti inamidati, scatenava il finimondo nell’irrefrenabile vocio: «!» «!» «!» «No, tu a unchiàsti a ieri mmatìna!» «Ma chi dici, munzignàru!» («Io!»… «No, tu l’hai gonfiata ieri mattina!» «Ma cosa dici, bugiardo!»).

Il caro don Vincenzo, pace all’anima sua, sempre in ritardo, arrivava di corsa dal confessionale e sgridandoci, mentre indossava i paramenti sacri, ammoniva lo zampognaro: «Vossia ‘sti prummissi non l’ava a fari, s’annunca ‘sti carusi non si règgiunu! Forza amunìnni c’ama nèsciri pa Santa Missa». («Lei queste promesse non li deve fare, se no questi ragazzi non si reggono ! Forza andiamocene che dobbiamo uscire per la Santa Messa»).

La campanella dava inizio alla liturgia e la ciaramedda intonava Tu scendi dalle stelle ai fedeli, pigghiàti ‘i friddu e ‘ncatarràti (presi dal freddo e dai catarri), che disattenti e stonati, ma con tanta devozione, la cantavano in coro. Subito dopo il sacerdote, dall’altare maggiore, segnandosi con la croce, recitava il Salmo 42: «Introìbo ad altàre Dei» e noi, seraficamente, rispondevamo: «Ad Deum qui laetìficat juventùtem meam».

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