DAILY LA PAROLA

Felicità

La felicità per molti è una chimera, di più, non esiste. Ma Epicuro ha dato qualche saggio consiglio per ottenerla: sapendo dosare il piacere.

Eccola qui una parola che, perciò rendendola “infelice”, divide l’umanità. Tra quanti – giudicandola inesistente, priva cioè, secondo Ferdinando de Suassure, di significato e munita solo di significante – l’abolirebbero dal vocabolario, e quanti, invece, pur magari non avendola mai provata, o di ciò persuasi, come minimo vi aspirano, l’agognano, se non addirittura se ne sentono pervasi e dicono essere lo stato permanente del loro animo.

Linus

Perciò felicità, fin dai tempi più lontani, ha tanto occupato le faticose e non invidiabili giornate dei filosofi, indefessi lavoratori che, come Sisifo giunti in somma alla vetta col loro macigno sospinto a furia di sforzi, si trovano nuovamente a dover compiere la propria opera, ovvero sia chiusa una questione, sono costretti ad aprirne un’altra.

Definizioni

Il Dizionario di filosofia a cura di Andrea Biraghi edito dalle Edizioni di comunità nel 1957 – anno felice direbbe chi scrive, pur potendo sostenere il contrario –, rimanda nell’indice analitico al concetto di “bene” (p. 495) e lì inizia una disamina che sviluppa una pagina o giù di lì, ma ci porta al cuore della questione relativa alla parola di oggi.

L’Abbagnano, nel suo Dizionario di filosofia pubblicato dalla Utet tre anni dopo, nel 1960, ed in possesso di chi scrive nell’edizione del 1998, a questa “magica” parola di pagine ne dedica ben più di due, scritte fitte fitte su due colonne, partendo dal greco eudaimonia che congiunge la particella eu, il “bene”, con il daimon, il “demone” – da non confondersi automaticamente con il “diavolo” – o la “sorte”, e rivelandoci così che una “buona sorte” o un “buon spiritello”, la propria piccola divinità, possono, questo è alla lettera il significato della felicità, darci «uno stato di soddisfazione dovuto alla propria situazione del mondo» (Abbagnano, cit.), vale a dire quella condizione che i Rolling Stones, nella loro splendida canzone I can’t get no satisfaction, già colmi di sostanze che la felicità spacciano insieme agli infelici spacciatori, dicono ardua da raggiungere.

Precisa il Dizionario di filosofia della Utet che la nozione di felicità «si differenzia da quella di beatitudine, la quale è l’ideale di una soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col mondo e perciò ristretta alla sfera contemplativa o religiosa».

Questione seria, dunque, non solo perché di essa se ne sono occupati, stando a quanto riporta quel tomo, prima Diogene Laerzio, Democrito, Aristippo, Platone, Aristotele, gli Stoici, poi Plotino, San Tommaso, Lorenzo Valla, Locke e Leibnitz, quindi Hume, Kant ed Hegel, ed ancora Bentham, Beccaria, Stuart Mill, poi, rimembrando studi universitari, Russell, Marx e a modo suo Nietszche, senza ovviamente tralasciare il poeta di Recanati, Giacomo Leopardi, per non dir di Freud che all’argomento correlato – il piacere – dedica un intero basilare concetto, il “principio di piacere” contrapposto a quello “di realtà”, e Alexander Lowen che così, Piacere, intitola un suo saggio; ma anche e soprattutto perché di quella roba lì – il piacere e la felicità, l’ottenimento del bene – all’incirca ogni individuo che abita il pianeta si occupa, più o meno consapevolmente e con più o meno frequenza.

Consigli

E, dunque, “stato di soddisfazione”, connesso al “bene” ed al “piacere”, che spesso invece li si vogliono tenere ben separati, “terreno” e non “transeunte”. «La felicità è una coperta calda», litania Linus (digitando il suo nome su Google, pensa te, compare prima il dj, mah!) nelle strisce di Charles M. Schulz, da cui se ne deduce che quando non ce l’hai, felice non sei. O un piatto di riso, ovviamente.

Per cui talvolta è fatta di poco, non bisogna andare a cercarla tanto in alto, nemmeno al shop center.

Epicuro Lettera sulla felicità

Uno che ci ha riflettuto intorno a lungo è stato Epicuro – alla lettera “il compagno”, il “soccorritore” –, un filosofo greco vissuto 2.400 anni fa, prima che nascesse Cristo, su cui ha scritto la sua tesi di laurea il buon vecchio Carlo Marx. Mandò una lettera all’amico Meneceo a noi è giunta col titolo Sulla felicità e – checché si pensi che gli epicurei siano dei crapuloni goduriosi e dissoluti – lì c’è qualche consiglio per come ottenerla: perseguendo il piacere ma sapendolo dosare, distinguendo tra ciò che davvero ci arricchisce e dà gioia e ciò che invece assomiglia all’insegna che ruota e sventola all’impazzata, inseguendo la quale Dante fa correre nudi e punti da vespe e mosconi quanti in vita non riuscirono a schierarsi né dall’una né dall’altra parte, in altre parole non seppero scegliere, giudicare e scegliere, aver consapevolezza e decidere: gli ignavi.

Epicuro

Invitava a sedersi sempre ad un banchetto quasi certi di non poter assaggiare neanche una vivanda o un sorso di vino, per poi godere di ogni boccone lentamente assaporato. A distinguere tra ieri, oggi e domani, soffermandosi sul secondo, anzi – come diceva anche Walt Whitman – sull’attimo, sull’istante, sul “now”: l’unico che stiamo davvero vivendo, essendo il resto già vissuto o ancora da venire. Ed infine a non aver paura, di niente, nemmen della morte – che altro c’è di peggio – dato che «quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi».

Val dunque la pena battersi per un tozzo di pane o per un mondo migliore, val la pena non procurar danno perché esso genera sofferenza a chi lo subisce e a chi lo arreca, ma avendo sempre quella che un semplice monaco buddista, Thich Nhat Hanh, chiama «la presenza mentale». Di lì alla felicità il passo è breve.