CRITICA LIBRI

Con Kafka in cerca del padre che è in noi

Lettera al padre di Kafka è una lettera che suona come il  bilancio di una vita. L’autore da un anno sa che è malato e morirà presto e il bilancio va fatto affrontando il nodo fondamentale, il centro assoluto della sua vita: il rapporto col padre. Tutti i suoi libri girano intorno a questo centro, sono tentativi di sciogliere questo nodo. Il rapporto col padre è il filo conduttore dei suoi scritti. Scrive al padre nella lettera I miei libri parlano di te. Tutti i suoi libri sono lettere al padre, ma gli altri sono lettere indirette, nascoste. Adesso il momento è maturo per una lettera diretta, aperta. 

Pertanto la lettera è testimonianza di una svolta in questo rapporto e quindi nella vita di Kafka. Intanto è un’improvvisa, imprevista confessione. E poi è un ribaltamento nell’opposto: al padre non ha mai detto nulla, ora dice tutto. Dalla totale chiusura alla totale apertura. Si era sempre vergognato a mostrarsi nudo, in questa lettera si spoglia.

Certo sappiamo che essa non arriverà mai, il padre non la riceverà. Io penso che ciò avvenga perchè non è così importante che arrivi. Difatti non è diretta veramente al padre ma a se stesso, non al padre esterno ma al padre interno. Franz sente l’esigenza di risolvere internamente, di fare i conti dentro di sé col suo fantasma del padre. Leggendo la lettera conosciamo non il padre reale ma il fantasma del padre in Franz. Tutto è interno. In Franz Franz, il figlio, parla al fantasma di Hermann, il padre.

E cosa gli dice? La lettera mette in scena un processo. Però c’è di nuovo un ribaltamento. Il rapporto tra i due è sempre stato un processo ma il giudice era sempre il padre e il figlio l’imputato. Adesso per la prima volta giudice è il figlio e imputato il padre.

E di cosa lo accusa? Di un’educazione sbagliata. Di non essere stato un buon padre, non un padre assente ma troppo presente. Un padre padrone, autoritario, intollerante, tiranno, un gigante, sovrano assoluto, misura di tutte le cose, un Dio onnipotente, imprevedibile, umorale, dal cui arbitrio dipende la vita e la morte dei figli. Un padre al di sopra della legge, anche della legge morale, al di là del bene e del male.  É lui la fonte del bene e del male. Ciò che lui vuole è bene, ciò che non vuole è male, bene è rispettare la volontà del padre, male è contrastarla.

E poi lo accusa di essere la causa principale, anche se non l’unica, per cui lui, il figlio, è quello che è: una nullità, altrove dirà uno scarafaggio. Si affrontano qui due figure che hanno la potenza di due archetipi. L’archetipo della forza, il padre, e l’archetipo della debolezza, il figlio, evidentemente in una lotta impari. Sono due opposti: il padre è per il figlio il totalmente altro da sé. Differenza che si potrebbe declinare in tanti modi diversi, con tante coppie di opposti: sicuro insicuro, materiale spirituale, pratico speculativo, estroverso introverso, senso di superiorità e senso di inferiorità (fisica e spirituale), arrogante pauroso, riuscito fallito, virile femmineo, invadente timido, in ultima analisi tutto e nulla.

E sono denunciati i metodi e i comportamenti educativi con cui il padre lo ha reso una nullità: castrazione, umiliazione, delusione, ironia, anaffettività, insulti, minacce, terrorismo, mancanza di riconoscimento e autonomia, volontà di un figlio fotocopia, uccisione, come un killer, delle emozioni e degli affetti del figlio.

L’accusa è di essere stato un tiranno e non un padre, è l’assenza nel padre di un senso paterno.

E tutto questo ha provocato nel figlio odio, rancore, risentimento, paura. E soprattutto senso di colpa per il quale pensa di meritare quel trattamento e vive sempre nell’angoscia di una punizione imminente. 

Ma qual è il senso della colpa? Va inteso proprio nel senso più radicale: è il peccato originale, la colpa di essersi ribellato disobbedendo a Dio padre mangiando la mela, cioè essendo diverso da quello che il padre voleva cercando di differenziarsi, di essere se stesso. Il divieto del padre era non devi essere diverso da me. Invece il figlio ha rifiutato l’eredità del padre, ha disprezzato il negozio di famiglia, non ha risposto alle aspettative, ha rifiutato il nome, non è un Kafka. A questa colpa è seguita la cacciata, dal Paradiso terrestre. Si ricordi, e la scelta non è casuale, che ne La metamorfosi il figlio muore per le ferite causate dalle mele con cui il padre lo ha colpito. Il padre uccide il figlio scarafaggio usando come strana arma proprio la mela, prendendolo letteralmente a melate.

E tuttavia la lettera non manifesta solo l’odio ma anche l’ammirazione e l’amore. Si apre con quel mio caro padre  e si chiude con l’auspicio che a entrambi possa riuscire più facile il vivere e il morire. L’accusa principale rivolta al padre è di di non aver risposto alla domanda d’amore del figlio. E qui si rivela tutta l’ambivalenza di questo rapporto (le accuse, dopo essere state ferocemente pronunciate, sono sempre subito dopo addolcite, attenuate, il padre giustificato). E si rivela anche una volontà di verità. La lettera è confessione nel senso più profondo: dire la verità a se stessi.  Scrivere per Kafka è conoscere se stesso.

In questo senso è una lettera elevata. Sa elevarsi al di sopra dell’odio. Quando nella lettera parla l’odio dice è tutta colpa tua. Ma quando parla l’amore, amore per la verità, dice non è tutta colpa tua, è anche mia. Anzi meglio non è colpa di nessuno, non cerchiamo la colpa, cerchiamo la causa di ciò che accade tra noi. La causa è aver stabilito una certa relazione, la relazione vittima carnefice, in una lunga guerra. Ma non è responsabile solo il carnefice, anche la vittima lo è. Vittima e carnefice sono complici. Né la relazione è a senso unico, i ruoli non sono rigidamente distribuiti, il carnefice è anche vittima e la vittima è anche carnefice, per esempio il figlio vittima diventa carnefice quando tormenta il padre col mutismo, la freddezza, il distacco, quando si rende inafferrabile. In realtà, dice il figlio, siamo entrambi vittime di questa dinamica patologica. 

Comprendere questo, che tutti e due sono vittime, e quindi accomunati da uno stesso dolore, entrambi infelici, fa sorgere nel figlio un sentimento di pietas, per il padre e per se stesso.

Ma il figlio può raggiungere questo punto di vista superiore perchè tira fuori tutto, sputa tutto il rospo. La lettera è espressione del bisogno di non tenersi più tutto dentro. È tenersi tutto dentro che mantiene la patologia. Ma tirando fuori tutto, se ne libera. Chi non vuol vedere, non vuol ammettere di avere in sé odio, rabbia, rancore, continua a tenerli dentro e resta arrabbiato, odioso, rancoroso. Ma chi sceglie di vedere, di ammettere di averli e li tira fuori, poi non li ha più dentro e dunque non prova più odio, rabbia e rancore. Tirando tutto fuori si purifica, grazie alla potenza catartica, in questo caso, della scrittura. È nella letteratura che Kafka parla, si confessa e si libera. L’arte è catartica, dice Aristotele. Ma, sollevato al di sopra dell’odio, il figlio può vedere il padre con altri occhi, sotto una nuova luce, vederne non solo l’onnipotenza ma anche la debolezza, e, uscendo dall’atteggiamento di colpevolizzazione solo dell’altro e vedendo le proprie responsabilità, può riconciliarsi internamente col padre. Kafka ha sempre detto al padre un grande no, ma questo no lo lega, lo rende schiavo, e adesso con questa lettera si libera dicendo al padre di sì.

A mio parere questa lettera è un tentativo di perdonare il padre. Di ricostruire un’immagine interna del padre che il figlio non ha mai avuto, un’immagine positiva, umana, non divina, di una divinità negativa e terrifica. Un tentativo di liberare il padre e se stesso dalla schiavitù di questa rappresentazione negativa, e perciò dall’odio e il rancore. Per me è una lettera liberatrice, appunto catartica. Con questa lettera Kafka esce fuori dalla tana che aveva sempre abitato. Io penso che dopo questa lettera abbia visto il padre in altro modo. E, anche se non glielo dice con la lettera, che non arriverà mai al padre, io penso che glielo abbia detto in altro modo. Ovviamente non lo so, ma penso che dopo questa lettera qualcosa sia cambiato nel loro rapporto. Se c’è una luce nuova si vede, le cose si dicono in tanti modi. Se in una relazione cambia uno dei due termini è automatico che cambi anche l’altro.

Perché questa non è una lettera che lascia uguali, è una lettera che trasforma. Che stabilisce un dialogo col padre che non c’era mai stato prima. Fa parlare il padre interno, gli dà voce. E la cosa più importante è quella che il figlio dice senza dirla. Cioè, semplicemente, che ci tiene al padre. Questo Kafka dice a se stesso. Non ci avesse tenuto, non gliene fosse importato nulla, avrebbe lasciato tutto com’era, si sarebbe affezionato al rancore. Non ci avesse tenuto non avrebbe scritto questa lettera. Con questa lettera ha voluto salvare il padre, cioè il suo affetto per lui. Il processo non si conclude con una condanna. E anche se apparentemente è una lettera d’odio, è bellissima non perchè è una lettera d’odio ma perchè in realtà è una lettera d’amore. Una strana, insolita lettera d’amore. 

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