LA PAROLA

Contenzione

Già Eugenio Borgna, in maniera netta e limpida, definisce nel 2006 la contenzione come «l’essere legati, sottratti ad ogni libertà possibile ed immersi in uno spietato isolamento». Parole di denuncia senza appello per una pratica ancora troppo spesso considerata di ordinaria amministrazione. Nei manuali di psichiatria non se ne parla mai, anche se l’esercizio è da sempre collegato al trattamento dei malati mentali: nella terminologia medica ed infermieristica, si usa il termine “contenzione” per definire l’immobilizzazione parziale o totale di un paziente, attraverso l’uso di cinghie, lacci, fascette, polsini, bretelle, sedie e letti appositi. Contenere come legare, innanzitutto: se l’apparenza appare venata di normalità è perché – aggiunge lo stesso Borgna – «le parole possono attenuare e smorzare la dimensione reale delle cose, ma non possono cancellarla».

Ciò che si cancella, nella pratica di contenzione , è la dignità della persona, negata nella soggettività e nel diritto. Viene meno, a ben pensarci, la sua possibilità di contrattazione, di resistenza. La persona su cui si esercita contenzione è ridotta ad un corpo domato. Allo stesso tempo, quando una persona viene legata, cessa anche ogni cura, perché viene meno ogni rapporto di reciprocità, di riconoscimento (e non solo nei confronti del singolo, ma dell’intero reparto). La pratica odiosa e degradante del legare l’Altro viene, per lo più, considerata un atto tecnico e professionale nell’ambito del “contenimento”, ossia la presa in carico di persone in difficoltà. Il fraintendimento, tuttavia, è clamoroso: il contenimento è contemplato, in un rapporto medico-paziente, come assunzione di responsabilità, trattenimento delle persone in bilico entro limiti spaziali e interiori. Si presuppone una relazione interpersonale, appoggio e fiducia; non si utilizza un mezzo meccanico o coercitivo, ma si agisce attraverso il contatto (anche attraverso lo scontro) tra i corpi. Il contenimento contempla il rischio di vivere con l’Altro, la contenzione mai.

Eppure, se il legare affonda le sue radici e riporta all’immagine di folli incatenati, alle camicie di forza e ai mezzi vessatori della psichiatria manicomiale, oggi bisogna constatare che tale pratica è ancora ben viva e presente in molti centri di salute mentale, nonostante la legge Basaglia e gli sforzi sinceri di tanti professionisti  del settore. Quel che è peggio, tuttavia, e la cronaca lo riporta puntualmente, è che la contenzione si è estesa ad altri ambiti e nei confronti di altri soggetti, quando – per malattia, disabilità, età, condizione sociale – le persone perdono del tutto o in parte la propria capacità contrattuale. Capita agli anziani non autosufficienti, in situazione di ricovero istituzionalizzato. Si legano i disabili, gli adolescenti “difficili”, le persone con handicap, specie quando queste categorie non sono protette da legami sociali o familiari forti. Sono in pericolo questi pazienti, e non solo cognitivamente o emotivamente; numerosi studi hanno evidenziato le gravi conseguenze (dirette o indirette) della contenzione: lesioni contusive, nervose da compressione del plesso brachiale, ischemiche, aumento delle cadute con gli esiti più infausti, piaghe da decubito, incontinenza meccanica, insorgenza o aumento di stato confusionale. Nel 2009 – un esempio tra i tanti, ma poco è cambiato in un decennio – in una casa di riposo della provincia di Reggio Emilia, a seguito di un incendio, è morta una persona in contenzione, quindi impossibilitata a lasciare il letto.

La contenzione, inoltre, crea un mercato perverso e fiorente, in cui le ditte produttrici reclamizzano a tutt’oggi strumenti per legare “in modo sicuro e confortevole”. Caso emblematico, la culla per tutte le età, un letto chiuso su tutti i lati, sormontato da una copertura in nylon, versione chic del “letto a rete” in uso, fino a qualche decennio fa, nei manicomi. Nel dépliant, viene ribadito che la culla garantisce “sicurezza, dignità e comfort”. Come sosteneva Basaglia, è sempre questione di presenza critica «per non mascherare, sotto la costruzione di teorie apparentemente nuove, il desiderio di lasciare le cose come sono».