La nostra vita quotidiana è intessuta di piccole, minuscole coincidenze. Pochi giorni fa, nelle stesse ore in cui a Mosca Vladimir Putin veniva incoronato per la quarta volta presidente della Federazione russa, mi aggiravo per le vaste sale del Museo MamBo di Bologna, contemplando le preziose tele della mostra Revolutja, dedicata alla vita artistica sovietica nei tempi di ferro e di fuoco della rivoluzione. Nell’ultima sala ti imbatti in una tela severa e inquietante: un ritratto di Stalin, dipinto dall’artista Pavel Filonov nel 1936, al colmo del terrore sovietico e in pieno culto della personalità. La storia di questa opera è singolare. Filonov, artista libero, visionario e rigoroso, riconosciuto come maestro, non era tuttavia gradito al regime. Le sue opere erano considerate “incomprensibili”, le sue esposizioni vietate in patria e bandite dai musei sovietici.
L’uomo era condannato a una vita di stenti. Scrive nel suo diario: «Fin dai primi giorni di giugno, tè, zucchero e un chilo di pane hanno costituito la mia razione quotidiana. Ieri, con la farina che avevo risparmiato, mi sono cotto l’ultima focaccia. Per il resto del mese, dovrò rassegnarmi a patire la fame». Gli amici, preoccupati, gli consigliano di ingraziarsi il Cremlino dipingendo un tema patriottico, e Pavel – nel 1936 – consegna questo ritratto di Stalin. Ma il quadro non è gradito, e l’artista dovrà rassegnarsi a combattere con la fame quotidiana e con il disprezzo della società artistica ufficiale. Guardo questo ritratto e mi chiedo cosa possa aver indispettito Josif Vissarionovic. La tela restituisce l’immagine di un uomo severo e possente, ancora giovane, il bel viso caucasico, dominato dai folti baffi e dagli occhi pensosi. Non c’è il braccio rattrappito, l’incedere bolso, la pelle del viso devastata del vero Stalin.
Peggio, molto peggio, andò al mite e sublime poeta Osip Mandel’stam, vittima indifesa dell’accanimento del potere sovietico. Più che una poesia fu un atto suicida l’Epigramma a Stalin, sequestrato dai cekisti tra le sue carte nel confino di Voronez, nell’inverno del 1935. Il dittatore è qui il «montanaro del Cremlino, dalle dita grasse come vermi, che forgia decreti su decreti come ferri di cavallo…». Fu questo ingenuo ritratto a condannare a morte il poeta, o forse Osip era già condannato a morte, nel suo vagare da confino a confino, da gulag a gulag. Fino alla scomparsa nel nulla, le sue ossa disperse in una fossa comune, in un campo di passaggio, alla periferia di Vladivostok, nel 1938.
Mi dico allora che il culto della personalità non può perdonare troppa fedeltà al soggetto, nel bene e nel male. Il despota, per riconoscersi, ha bisogno di pennacchi e uniformi, di medaglie e fanfare, di gesti e non di sguardi. Il realismo socialista («raccontate la vita autentica, raccontate l’eroismo vero del nostro popolo») si arresta sempre alle soglie del “troppo vero.” L’artista si era illuso di ottenere indulgenza consegnando al piccolo padre un ritratto autentico, per quanto trasfigurato dalla bellezza. Ma Stalin voleva una icona e non un uomo in carne ed ossa, una epica e non una cronaca.
Funziona così il culto della personalità? Non sono un esperto, ma se osservo l’iconografia ufficiale di Putin ritrovo lo stesso gusto per il pennacchio, lo stesso disprezzo per la vita reale. Ecco Vladimir Vladimirovic in tenuta da ammiraglio che scruta l’orizzonte dalla tolda di un incrociatore, ecco Vladimir Vladimirovic che ingaggia il corpo a corpo con una tigre siberiana, ecco Vladimir Vladimirovic che atterra l’avversario con una mossa di judo. Piccolo, pingue, gli occhi sempre più stretti, i capelli color cenere ogni giorno più radi sul cranio, ma sempre drappeggiato nelle lussuose vesti del potere. Sarà così fino al 2024 e forse oltre: per anni e anni e anni e fino alla morte, Vladimir Vladimirovic Putin continuerà a combattere senza tregua con la sua icona favolosa e a occultare gelosamente la sua immagine in carne ed ossa.
Non succede così a noi umani, nemmeno ai grandi artisti. Pavel Filonov muore nel 1941, nel momento più duro della grande guerra patriottica. E muore – chi può dirlo? – di delusione e di stenti. Il cadavere fu trovato dalla moglie riverso sotto una delle sue tele più famose e sulfuree: un grande affresco dal titolo Il festino dei re.