Sacrificio è l’ultimo romanzo di Andrea Carraro, «il suo più bello», scrive il direttore di “Succedeoggi” Nicola Fano in questo articolo intitolato Carraro & Faust al quale ha fatto seguito, segno evidente del valore di questo libro, un’altra recensione di All’inferno (e ritorno) di Giuliana Vitali.
NICOLA FANO
Il nuovo romanzo di Andrea Carraro (Sacrificio, Calstelvecchi, 170 pagine, 17,5 euro) è – per chi scrive – il suo più bello, più ancora di Come fratelli (il suo più recente, prima di questo) che pure era stato salutato giustamente come il suo più coinvolgente. La verità è che questa classifica non ha molto senso: i romanzi di Carraro accompagnano il tempo e come tali, ogni volta che arrivano a materializzarsi sulla pagina, è come se fossero pura realtà inverata. Ciò che avevamo bisogno di leggere. Tuttavia, Sacrificio mostra davvero qualcosa di nuovo, nella parabola di questo autore. Per due ragioni che qui cercherò di spiegare.
Innanzi tutto, conosciamo (e apprezziamo) Andrea Carraro come uno dei maestri del nuovo realismo. È nota (anche ai lettori di Succedeoggi) la sua tenace filosofia del vero: la letteratura deve solo aprire gli occhi, poiché tutto è lì davanti a noi in attesa di essere raccontato. E lo scrittore, per Carraro, è proprio colui cui spetta il compito (gravoso) di cogliere dalla realtà la metafora; ma mai travisandola (la realtà, dico). Ebbene, qui ci troviamo sorprendentemente di fronte a una storia nella quale l’aspetto visionario (il non-realismo, per dirlo con la parola giusta) ha un suo peso specifico. E questa è una vvero inattesa. Eppure felice. Quasi inevitabile.
Vediamo. Sacrificio racconta la storia di Giorgio e Carolina. Carolina è una ventenne insicura che è andata a cercare la propria identità nell’eroina. Quando capisce che la strada non è quella giusta (non è quella che davvero corrisponde alla sua identità), cerca di uscirne. E sarà difficilissimo, perché la realtà va dove vuole, non dove vorrebbe essere condotta da noi individui. Giorgio è suo padre. Ed è un uomo analogamente irrisolto, che da ragazzo è andato a inseguire miti sbagliati senza venirne fuori mai del tutto (Lou Reed, lungamente citato, in questo percorso di autoanalisi ha un rilievo notevole). Scrive, lavora in una casa editrice, è cattolico, prega ed è disposto a tutto pur di salvare la figlia dall’eroina. Per la semplice ragione che la sua vita – altrimenti del tutto fallimentare – ha senso solo nella paternità: risolvere se stesso come padre è l’unico modo per darsi un’identità non dico “vincente” (non si tratta di vincere o di perdere) ma almeno sensata. Tutto, pur di salvare Carolina; tutto pur di essere padre. Almeno padre! Questa è la filosofia finale di Giorgio, quella che lo porta a trasformarsi in un Faust d’oggi che vende l’anima al diavolo per salvare sua figlia e – per suo tramite – se stesso. E qui veniamo al non-realismo di cui si diceva: Giorgio parla con la Madonna ma lei non gli risponde. Parla con i preti che gli dicono cose banali. Cerca di parlare con Dio ma ne ha paura. L’unico che gli risponda è proprio il diavolo che un po’ lo sbeffeggia, un po’ lo guida, un po’ lo sfida. E gli viene incontro continuamente.
Carraro – da sano scrittore realista – riporta fedelmente questi dialoghi assurdi come fossero veri. Forse sono visioni di un uomo disperato; forse sono allucinazioni di un drogato; forse sono sogni di un ubriaco. Fatto sta che la realtà delle cose tra Giorgio e Carolina coincide maledettamente con i paesaggi dipinti da queste visioni: Faust salva la sua Margherita e Mefistofele se ne torna all’inferno contento e con la sua preda. Proprio Goethe, del resto – che credo Carraro abbia tenuto presente, qui – fa coincidere, nel finale della sua opera magna, il sacrificio di Faust con la sua salvazione presso Dio. Il quale accetta il suo patto con Mefistofele in quanto sottoscritto “a fin di bene”. Tra parentesi: tutto al rovescio di Marlowe, autore che curiosamente avevo sempre creduto Carraro avrebbe potuto sentire più affine.
E fin qui la questione delle visioni, del non-realismo.
C’è poi un’altra grande questione sollevata in Sacrificio. Gli scrittori italiani nati negli anni Cinquanta del secolo scorso hanno dovuto compiere uno sforzo enorme per completare un percorso umano e letterario che alle generazioni precedenti era venuto molto più facile (e che le generazioni successive non faranno, con ogni probabilità). Si tratta del percorso che conduce il punto di vista interno ai propri romanzi dalla condizione di figlio a quella di padre. Accettare il padre che – inevitabilmente – dopo l’età della formazione è in ognuno di noi, è uno sforzo diventato titanico. Tanto più oggi: un tempo in cui si scrivono solo romanzi di formazione (anche perché si vivono solo, sempre, drammaticamente, vite di formazione, perenni giovinezze). Ebbene, Sacrificio completa questo percorso in Andrea Carraro (pensate a L’amico d’infanzia di Sandro Onofri o Caos calmo di Sandro Veronesi, due romanzi ai quali mi sento di accomunare questo nuovo di Carraro, come a formare una formidabile trilogia dei padri). Giorgio – come si diceva – ha bisogno di trovare se stesso in quanto padre. L’autore ci racconta anche la sua adolescenza, è vero, così come il personaggio completa il cammino iniziatico del suo “sacrificio” in una sorta di festa per vecchi adolescenti a base di alcol e cocaina, allusioni sessuali e altre idiozie del genere; ma nelle ultime pagine del romanzo Giorgio è solo un buon padre, un uomo che conduce per mano nella vita sua figlia.
Ecco: nella chiarezza di questa immagine ho trovato il tratto più bello e coinvolgente del nuovo romanzo di Andrea Carraro. Perché è difficile ammettere di essere padri, oggi (si tende a essere fratelli maggiori dei propri figli, proprio come ha fatto Giorgio con Carolina); ancora di più è difficile ammettere di essere stati cattivi padri. O solo padri sbagliati, come appunto Giorgio. Non c’è letteratura che tenga, non c’è successo professionale, né tumulto amoroso, né dialogo con Dio (o con il diavolo) che tenga di fronte a questa condanna: che al volgere della vita adulta siamo irrimediabilmente padri. Ed è lì che si giocano il nostro destino e la nostra considerazione di noi stessi.
Ora, non voglio rivelare il finale del romanzo, ma questo ragionamento su Sacrificio non può concludersi senza annotare che la concessione alla visionarietà da parte di Carraro non ha compromesso il suo realistico, tenace pessimismo sulla società in cui viviamo. Salvo che qui, nella parabola di Giorgio e Carolina, esso oltrepassa i fatti e raggiunge una sorta di valore assoluto: lo scrittore non si limita più al racconto fedele di un mondo brutto ma annota con precisione la fatica di vivere. Ovunque si viva.