ATTUALITÀ STORIE

Dall’immunità all’impunità

Correva l'anno 1993, il 29 ottobre, quando venne approvata la Legge costituzionale 3/93 che riformula l'articolo 68 della Costituzione, abolendo l'immunità piena per i parlamentari, che tanto spesso si era tradotta (e ancor oggi, si traduce) in impunità

La data – 29 ottobre 1993 – è in qualche misura storica: quel giorno, con legge costituzionale, venne abolita l’immunità piena per i parlamentari, quell’immunità che tanto spesso si era tradotta (e qualche volta ancor oggi, vedi l’ex ministro Salvini per il caso Diciotti) in impunità. Prima della riforma del ’93, l’articolo 68 della Costituzione prescriveva che «i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». E sin qui tutto è restato come prima. Aggiungeva però la norma che, «senza autorizzazione della Camera a cui appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura».

Codicillo finale dell’articolo 68: «Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile». Come dire che, fino alla riforma, la cosiddetta autorizzazione a procedere impediva al magistrato di avviare qualsiasi indagine su un parlamentare senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza. Risultato: tra il 1948 (entrata in vigore della Costituzione) e il 1993, su 1.225 richieste di procedimento penale, ben 963 erano state respinte.

Poi, con la riforma, molto è cambiato. Fermo restando il principio che deputati e senatori non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, sono sparite le norme che prescrivevano l’autorizzazione parlamentare alla magistratura, tanto per potere aprire procedimento penale nei confronti di un deputato o di un senatore, quanto per procedere all’arresto in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna. Resta invece la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza per la perquisizione personale o domiciliare e per procedere a intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni o al sequestro di corrispondenza.

Come nasce la riforma? Nasce sull’onda di uno scandalo politico, il 29 aprile 1993, quando al mattino si insedia il nuovo governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi che vede per la prima volta fra i ministri tre esponenti del Pds; e nel pomeriggio la Camera nega l’autorizzazione a procedere nei confronti dei leader del Psi, Bettino Craxi, coinvolto in una serie di scandali che lo porteranno (quando una delle sentenze diverrà irrevocabile) alla latitanza e alla morte ad Hammamet, in Tunisia. Il Pds prima e poi anche i Verdi, ritirano le proprie delegazioni dal governo. Siamo in piena stagione di Tangentopoli, e con la vicenda Craxi la questione della immunità/impunità è diventata un problema politico che bisogna una buona volta affrontare in modo radicale. L’esame delle proposte di riforma procede in modo relativamente spedito e nel giro di qualche mese dall’originario articolo 68 spariscono le norme che consentivano una indebita protezione dei parlamentari dal controllo giurisdizionale.

Gli effetti si vedranno, eccome. Nel 2007, dopo anni in cui l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti si era inventato mille scuse (i lavori parlamentari, gli acciacchi dell’età) per non presentarsi mai davanti ai giudici, la Camera sarà chiamata a votare la sua decadenza da deputato dopo la conferma in Cassazione della pesante condanna per la corruzione di alcuni giudici – caso Imi-Sir, uno scherzo da mille miliardi di lire. Lui si dimetterà un minuto prima del voto. Nel luglio 2011 la Camera vota l’arresto di un altro berlusconiano, Alfonso Papa, che finisce direttamente in carcere. Lo stesso avverrà poi per l’ex amministratore della Margherita, Luigi Lusi, e per il piddino Francantonio Genovese.

Ma siccome non tutte le ciambelle riescono col buco, fatta la legge, subito trovato l’inganno. Per decidere le sorti di un parlamentare inquisito è necessario il voto segreto dell’assemblea. E allora scattano i ricatti, i mercimoni, i legami di gruppo e di corrente. Così si salva nel 2009 il deputato berlusconiano Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica, e nel 2012 il suo compare di partito Sergio De Gregorio, accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria. Ma il caso più recente e scandaloso ha riguardato, come abbiamo già accennato, il capo dei leghisti Matteo Salvini che, da ministro dell’Interno, aveva guidato una vergognosa campagna razzista incentrata soprattutto nel blocco navale. Il 20 agosto dell’anno scorso l’allora ministro aveva impedito l’attracco dalla Diciotti, nave della guardia costiera italiana così «privando della libertà personale 177 immigrati». Da qui la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania di procedere nei confronti del cosiddetto capitano per «sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere». Ma il Senato respingerà la richiesta con la copertura politica dei grillini e dello stesso presidente del Consiglio…

L’ultimo caso di salvataggio è di non molto tempo fa ed ha aspetti paradossali. La giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera aveva deciso, a larga maggioranza, di chiedere all’assemblea di autorizzare gli arresti domiciliari (richiesti dal Gip di Milano) per il deputato Diego Sozzani, di Forza Italia, accusato di finanziamento illecito ai partiti per una mazzetta di 10mila euro promessa da un’azienda. La Camera era chiamata a votare a scrutinio segreto ed ha capovolto la decisione: Sozzani resta libero. Nel voto segreto si sono contati più di quaranta deputati, non solo della destra ma in qualche caso (uno dichiarato) anche del Pd.